Uno corre, l’altro corre e il terzo corre e forse porta la palla. No, così non funziona. Rimescoliamo le carte: uno corre, l’altro porta la palla e il terzo se capita e quando proprio non se ne può fare a meno colpisce palla e caviglie con quel che trova, malleoli e tibie proprie o in prestito. Il dilemma del centrocampo dell’Inter è come la formula della Coca Cola, se qualcuno lo conosceva può essere che se lo sia portato via di notte lasciandoci con un allenatore perplesso e in braghe di tela (noi, non lui che le troverebbe davvero poco eleganti). Un dubbio che riguarda sia il modulo, perché nel bagaglio tattico di Mancini ci sono diverse soluzioni e la capacità di cambiarle (a volte freneticamente), a gara in corso, sia gli uomini che sono complicati da assemblare. Prendiamo per buona la dichiarazione dell’allenatore (i moduli non contano, si gioca in 11), e adattiamola alla soluzione che preferisce, il 4-3-1-2 che nelle prime partite della stagione 2015/16 lo ha spinto a forzare le caratteristiche di alcuni dei suoi (Perisic trequartista), fino a snaturarli: come costruirà la linea dei 3 centrali per la prossima stagione, considerati gli uomini a disposizione e la loro poca propensione a costruire calcio?
Partiamo da Medel. È stato la chiave della prima parte della stagione passata, quelle quindici partite in cui tutto sembrava possibile all’insegna di lotta e sacrificio. Piccolo e veloce, piccolo e cattivo, piccole e tenace. Un po’ troppo piccolo per gli standard di Mancini che in genere più che il dinamismo premia la mole, ma sufficientemente intelligente da adattarsi al ruolo di frangiflutti e primo playmaker. Finché ha retto lui la squadra ha mantenuto un assetto equilibrato, pazienza per l’esasperante lentezza del suo giro-palla. Purtroppo però l’incantesimo si è spezzato presto, il pressing alto è la fine di tutte le velleità di Medel e di un modulo impostato sul suo controllo da vertice basso del rombo e da interno di centrocampo, appena cala l’intensità della sua corsa Medel è un giocatore molto normale, al di là dell’innegabile leadership e della forza di volontà.
Kondogbia è ancora un oggetto misterioso e le responsabilità non sono tutte sue. Utilizzato anche come esterno, ha sofferto moltissimo la densità e l’intrico di follie tattiche che sono le mediane delle squadre italiane. Kondogbia perde quasi tutti i palloni che recupera, ma se ha la possibilità di spezzare il ritmo e giocare secondo traiettorie che vede solo lui è un giocatore dirompente, un centrocampista di disordine e non di ordine, uno che se migliorasse anche di poco il tiro sarebbe davvero inarrestabile.
Brozovic è un talentuosissimo pasticcione, corre dove non dovrebbe, si sfianca in iniziative di pressing solitario e disperato, ha colpi che i due di cui sopra nemmeno sognano l’esistenza e tra 3 o 4 anni sarà un centrocampista completo e forte come pochi altri. Il dramma (sportivo, s’intende), di questi nostri giorni grami è non potergli consegnare le chiavi del centrocampo, la frustrazione è sapere che prima o poi il suo talento esploderà e verrà incanalato. Non è il giocatore che manca all’Inter, ci mancherà molto nel caso dovesse andare via (l’Arsenal è una possibile destinazione).
Felipe Melo è una perenne incompiuta. Ha classe e cattiveria ma non ha mai imparato a gestire la rabbia e a contenere le reazioni, in più l’età ormai veneranda lo costringe a giocare in un fazzoletto di campo e quindi ormai a colpire tutto quel che passa senza criterio. Incensato dopo le prime 10 partite, non ha perso occasione di smentire in pochi minuti quanto di buono fatto in mesi. Inaffidabile e poco dinamico, lo considereremo un buon rincalzo per i momenti di magra.
Ever Banega, ecco lui è forte. Molto. Il tema è la sua totale anarchia tattica. Gioca meravigliosamente bene nella trequarti avversaria, tende a scorrazzare e fare danni incalcolabili e vede il gioco più e meglio degli altri ma difficilmente potrà tessere il gioco e costruire quel possesso palla basso da cui costruire superiorità, quella che solleverebbe per una volta gli esterni dall’obbligo dell’uno-contro-uno come inevitabile ed unica soluzione offensiva.
E poi? Per ora nulla all’orizzonte, qualche nome, qualche promessa e la certezza che non arriverà Yaya Tourè, invocato e voluto da Mancini al punto da rischiare di farne un motivo di risoluzione anticipata del contratto. Roberto Mancini è un Signore del calcio e conosce i meccanismi e i ritmi del gioco meglio di moltissimi altri e di certo meglio di noi divanisti da secondo anello, certo è che in un anno e mezzo e passa di gioco se n’è visto poco e se è vero che il coinvolgimento di ogni reparto nella manovra è elemento essenziale del calcio moderno, altrettanto lampante è che un centrocampo disordinato, disorganizzato e anarchico non fa sperare in nulla di buono.
Quindi serve Ausilio, serve che in qualche modo si intervenga sull’esistente, che è indubbiamente un reparto di qualità ma che difficilmente rappresenterà in campo la somma esatta dei suoi talenti. Anzi…
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