Witsel spiegato a me stesso

Witsel è alto, grande e grosso e si è tatuato una collana con tanto di crocefisso tra i pettorali.

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Non fa il modello e non ha mai lavorato con Fabrizio Corona, nonostante la posa suggerisca quel genere di intensità e propensione narcisistica.

Non è lento e non è veloce, gioca a pallone divinamente bene con entrambi i piedi ma predilige il destro. Ha giocato a Liegi, a Lisbona e a San Pietroburgo e non tradisca quella faccia d’angelo che tanto piace alle ragazzine, perché Axel Witsel da giovinetto si è comportato come il peggior macellaio della linea mediana, per referenze chiedere al povero Wasilewski.

Nato nel 1989 è nel pieno della maturità e gli anni di esperienza internazionale ne hanno fatto quel centrocampista di raccordo e di manovra che nel calcio dell’esasperazione tattica e del giro palla isterico è merce sempre più rara. Risolto l’equivoco (folle), del suo schieramento sull’esterno, il nostro ha cominciato progressivamente ad arretrare la posizione di partenza e a incidere ancora di più sul ritmo delle squadre che hanno la buona sorte di metterlo in campo, a patto che siano dotate di una solida organizzazione di gioco (quindi non il terrificante Belgio di Wilmots).

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Da qualche anno Axel Witsel è il tormentone estivo preferito dai calciomercatisti italiani, forse anche a sua insaputa. È stato accostato a tutte le grandi e per una stagione intera ha coperto il bluff di qualche vecchia volpe del mercato mascherandosi da Mister X. Ci sono pochi calciatori con le qualità di Axel Witsel e una squadra che cerca disperatamente il perno del gioco dovrebbe fare follie per portarlo a casa.

Una squadra a caso.

Ausilio, Witsel ci serve come il pane

 

 

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