Uno di famiglia

Dici Rodrigo Palacio a un interista e quello sorride. Chiedi se gli piace il Trenza e ti risponde di sì, che non solo gli piace ma gli vuol bene proprio. Nei momenti bui può anche capitare che l’interista medio si commuova parlando di Palacio e della sua dedizione, dell’intelligenza tattica e di quei modi antichi che lo fanno diverso dai giovanotti del giorno d’oggi. Rodrigo Palacio è così dimesso ed educato che a volte sembra fuori dal tempo, pare di parlare di un campione degli anni Cinquanta, uno di quelli arrivati a Genova a bordo di un bastimento dopo un viaggio interminabile. Errore, perché Palacio è un calciatore maturo ma resta comunque un ragazzo, un trentenne con tanta esperienza alle spalle e molta più vita davanti, non per forza il senatore affidabile e anziano che per ultimo abbandona il palazzo in fiamme.

Eppure.

Eppure Rodrigo Sebastiàn Palacio è uno di quelli a cui lasceresti le chiavi di casa e il numero di cellulare di tua moglie senza problemi perché ti sembra di conoscerlo da sempre. Non è un tema di leadership, è proprio l’affidabilità e la sensazione di grande sicurezza che trasmette, la force tranquille. Giocatore formidabile, attaccante esterno con la fortuna di essere perfettamente ambidestro e una tendenza quasi innaturale ad aiutare la squadra anche in fase difensiva, Rodrigo ha speso i suoi anni migliori tra la Bombonera e Marassi, corse a perdifiato, gol difficili e facilissimi, mai una parola di troppo e meno vittorie di quante ne avrebbe meritate.

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Eppure.

Eppure Rodrigo Palacio all’Inter è considerato un vincente, uno della vecchia guardia, uno che conosce i valori e ha le qualità del gruppo del 2010, con la piccola ma non trascurabile differenza che il Trenza è arrivato ad Appiano Gentile nel 2012 e ha vissuto alcune tra le stagioni più incerte e difficili della recente storia nerazzurra. Cambi di allenatore, cambi di proprietà, drammi e disastri assortiti.

Rodrigo non ha fatto una piega, nemmeno dopo un infortunio che alla sua età avrebbe spinto molti a pensare al ritiro, nemmeno dopo la delusione terribile di una finale mondiale persa con tanto di gol mangiato, nemmeno quando pochi ingrati lo fischiavano perché lento e vecchio.

Una cosa divertente di Palacio è che il secondo soprannome che gli hanno affibbiato da ragazzino è La Joya, il gioiello. Rodrigo è prezioso ma pare l’ultimo al mondo a farci caso, ha sempre quell’espressione assorta e un po’ sofferente che più che ai divi di oggi lo accosta naturalmente ad atleti come Zatopek e Nurmi, la Locomotiva e il finlandese volante, campioni che hanno fatto la storia dello sport senza mai sorridere o quasi, con una smorfia dipinta sul volto che parlava di fame antica e di una strada che parte da lontano, molto lontano.

È stato sul punto di mollare, si è parlato prima di ritiro e poi di un ritorno in patria per salutare il calcio che ha amato di più prima di smettere e dedicarsi ad altro. Per fortuna Rodrigo ha tentennato e poi ha deciso di firmare per un altro anno, forse l’ultimo, forse solo per qualche spezzone di gara.

Saranno i più belli, quelli in cui l’interista medio (io), potrà guardare rapito il vecchio ragazzo Rodrigo che corre, sbuffa, copre, aiuta e gioca il calcio più intelligente che un attaccante abbia mostrato a San Siro negli ultimi anni (eccezion fatta per Diego Milito, ma quella è tutta un’altra storia). Se poi ci mettesse dentro un altro gol di tacco nel derby…

 

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