Meglio sconfitti che milanisti, Nicola Berti
Alle ore 17.55 San Siro non è più uno stadio, non solo. In campo ci sono migliaia di persone che corrono senza meta, ridono, piangono e si abbracciano e poi ricominciano a correre in cerca di altra felicità, di qualcuno con cui condividerla. Non c’è ordine nella gioia, nessuna ritualità nella festa euforica e selvaggia che si svolge in campo e che dall’esperto Trapattoni all’ultimo e più giovane dei tifosi coinvolge tutti senza sfumature né gradazioni di intensità. Si festeggia e basta. Eppure la vittoria non giunge inattesa, ci sono voluti mesi di lavoro e fatica per prepararla ed è strano e bellissimo assistere e partecipare a quelle scene di entusiasmo folle, come se fosse un trionfo improvviso. Il 28 maggio del 1989 cade di domenica, è uno di quei giorni di fine Primavera in cui Milano prima ammicca e ti illude di poter sopravvivere in città senza soffrire troppo e poi sfodera la sua temperatura da altoforno. Non è un luogo comune che la città si svuoti, da aprile in poi si va in Liguria, in campagna, ovunque purché sia lontano da Milano. Se la mia memoria fotografica funziona ancora, quel giorno le strade sono deserte, una lunga sequenza di semafori verdi e pochi timidi passanti. Chi è rimasto è a San Siro e alle 17.55 sta vivendo uno dei momenti più alti e belli dell’interismo moderno.
Inter – Napoli è finita da pochi minuti ed è finita bene, abbiamo rimontato lo svantaggio e spento al momento giusto ogni ulteriore possibile illusione sullo scudetto. 2 a 1 con una punizione di Matthäus tirata e ripetuta fino a diventare perfetta, il Napoli schiera il più forte giocatore di tutti i tempi ma è costretto ad arrendersi a una squadra che incarna alla perfezione il carattere del suo allenatore, un miracolo di volontà, forza fisica e carattere.
Il gol del momentaneo pareggio, come dicono i cronisti più scrupolosi, l’ha segnato Nicola Berti o meglio ha costretto Fusi all’autogol. In quel momento io sono lassù, piccolissimo, un puntino nerazzurro tra tanti altri. Gli anelli sono ancora due, il parterre esplode di gente che ha fatto ore di coda per trovare un biglietto e altra gente che ha scavalcato i cancelli rischiando collo e manganellate pur di esserci. A quei tempi e ancora per un po’ a San Siro si canterà per i giocatori, ognuno ha un coro e a seconda del numero di ripetizioni e del volume è semplice capire quanto sia amato. Quando la Nord canta:
E facci un gol,
E facci un gol,
Nicola Berti facci un gol,
ed è la Nord che te lo chiede,
Nicola Berti facci un gol
lo stadio trema come se stesse per venire giù. Pochi giocatori nella storia dell’Inter sono stati tanto idolatrati, pochissimi hanno meritato tutto quell’amore quanto Nicola Berti, per gli interisti Nicolino. Ma dov’è lui mentre nel delirio risuona il suo coro? Dopo il triplice fischio e l’invasione i giocatori sono rimasti per un po’ in campo, ognuno accerchiato e sommerso dell’amore frenetico e pericoloso dei tifosi, poi tutti si sono mossi verso gli spogliatoi, chi per la voglia di stringersi e festeggiare tra compagni e chi per salvare la pelle e sfuggire a una calca disumana. Walter Zenga più che parlare con Galeazzi riesce in qualche modo a rantolare la sua felicità, Beppe Bergomi è trascinato in giro per il campo come una novella Madonna di Pompei, lo sollevano e lo portano in processione fregandosene della sua riluttanza. Lothar Matthäus ha l’aria di uno che si sta divertendo come un matto e cerca di articolare qualche parola in italiano, vorrebbe dire che uno scudetto in Italia vale quanto cinque in Germania ma non ci riesce, s’ingarbuglia e sorride. Andreas Brehme non capisce la domanda e a occhio e croce potrebbe anche non averla ascoltata. Poi tocca a Nicola.
Se il destino era giusto doveva capitare oggi ed è capitato oggi. È giustissimo, giustissimo… Per me al primo anno in una grande squadra, vincere già lo scudetto penso che sia il massimo… È qui la festa, Jovanotti!
Nicola Berti da Salsomaggiore arriva all’Inter che ha appena 21 anni. Cresciuto nel Parma, ha giocato per tre stagioni nella Fiorentina e si è fatto notare per l’inesauribile corsa e la capacità molto moderna di entrare nelle azioni d’attacco e chiuderle sotto porta. Quando i Pontello decidono di cederlo per la cifra allora molto importante di 7,2 miliardi di lire la Fiesole perde le staffe, perché di Berti ama la grinta e la voglia quasi sciagurata di giocare al pallone. Nicolino ha un piede forte ma nemmeno lui pare curarsi bene di quale sia (nella leggendaria cavalcata di Monaco di Baviera tocca il pallone 7 volte in 70 metri, 3 di sinistro e 4 di destro), e nel dubbio li usa entrambi. Fin da subito i detrattori ne evidenziano la tecnica non eccelsa, Nicolino compensa con la corsa e un senso tattico ai limiti dell’umano. All’Inter arriva come mediano ma fin da subito mostra di saper coprire tutti i ruoli del centrocampo (il regista no). L’Inter che affronta la stagione 1988/89 vuole e deve scrollarsi di dosso il terribile senso di impotenza provato nei derby dell’anno precedente, in particolare quello 0 a 2 imbarazzante per la disparità di forze in campo, la qualità drammaticamente inferiore degli interpreti e la consapevolezza di essere stati graziati e non umiliati.
La rosa viene rinforzata, arrivano i due tedeschi e quel vecchio leone dell’area di rigore di Ramon Diaz, mai troppo rimpianto. I due talenti con più prospettiva sono Alessandro Bianchi, preso dal Cesena, e Nicolino. Nessuno si aspetta però che fin da subito abbiano un impatto del genere sul gioco della squadra. Bianchi è un esterno destro tutto cervello e agilità, una specie di secondo playmaker in appoggio a Matteoli. Berti è un incursore capace di sradicare palloni, intercettarli e pulirli a modo suo: con la corsa. Nessuna squadra italiana dell’epoca ha un giocatore con quelle qualità, uno che costringe le difese avversarie ad aggiungere un marcatore o comunque a cercare le contromisure per un attaccante aggiunto, un altro oltre a Matthäus. Nicolino a fine stagione mette insieme 7 gol in campionato ma la statistica che ci manca, quella che oggi è uno standard ma allora non veniva rilevata è la distanza totale percorsa. Berti è un giocatore in moto perpetuo, uno di quelli che ti preoccupi per loro, per il giorno dopo. Ma torniamo al tunnel degli spogliatoi e a quell’è qui la festa.
Nicola ha 21 anni e in uno spogliatoio del genere dovrebbe stare schiscio, come si dice a Milano. Ma il ragazzo ha un carattere estroverso e sa come farsi amare. Ciuffo e faccia da sberle, sempre sorridente, spesso strafottente. Più i tifosi avversari lo fischiano e lo contestano e più Nicolino si diverte a farli ammattire. I milanisti sono il suo obiettivo preferito. Loro lo fischiano e lui li sfotte, loro lo sfottono e lui segna, loro lo insultano e lui sbuffa e si sposta il ciuffo. Per lui il derby è una cosa seria, lo gioca con i calzettoni abbassati ma è come una guerra (parole sue). I milanisti hanno un solo incubo, subire un gol dal più detestato dei nostri e Nicolino li accontenta spesso.
Il Milan? Cos’è? Nicola Berti
Ci mette poco, pochissimo a entrare nei cuori degli interisti. Nicolino incarna alla perfezione l’innata predisposizione bauscia a spararla grossa, è quel che si dice un perfetto ganassa,uno spaccone dalla simpatia contagiosa. Per lui è lì la festa, sempre e a qualsiasi ora. Gli anni milanesi sono un vortice di partite, allenamenti, sbronze, donne meravigliose, viaggi e una condotta fuori dal campo che gli si perdona senza fiatare fino a quando il fisico e le ginocchia fanno il loro dovere. Negli anni d’oro del Milan più berlusconiano di Berlusconi stesso Nicolino è il baluardo contro lo strapotere rossonero, lo spauracchio da agitare di fronte al nemico per farlo innervosire, il fratello maggiore di tutti noi depressi e stanchi di non vincere. Ci pensa lui, segna lui, corre lui, li sfotte lui. La carriera di Nicola Berti meriterebbe mille pezzi di approfondimento, pagine su pagine di gratitudine, ma ci sono tre momenti in particolare che lo hanno trasformato nell’icona che è oggi, che gli hanno fatto guadagnare l’amore eterno e incondizionato di tutti noi.
Il gol al Bayern Monaco nell’andata degli ottavi di Coppa Uefa, il 23 novembre 1988. Una palla intercettata al limite dell’area e portata nell’area avversaria in sette tocchi, con i giocatori del Bayern increduli e quelli dell’Inter quasi fermi in estatica contemplazione, come tifosi più che compagni di squadra. Quel gol così come l’altro gioiello di Aldo Serena non servirono a passare il turno ma quella notte di neve e gelo Trapattoni capisce di allenare una squadra formidabile
Il gol di destro al Casino Salzburg nella finale di andata di Coppa Uefa del 1994. Nicolino torna da un lungo infortunio e nelle ultime giornate di campionato trascina un gruppo attonito e scosso fuori dalle secche della zona retrocessione, rimotiva la squadra, gioca un calcio meraviglioso e costringe Arrigo Sacchi a convocarlo per i Mondiali americani (unico interista). Raramente nel calcio moderno è capitato di vedere un esercizio di leadership come quello di Berti nel finale di stagione più drammatico della storia dell’Inter. Quasi zoppo guida la squadra con la forza del buon esempio. Il gol a Salisburgo consegna la quasi certezza della Coppa all’Inter che gioca il ritorno in casa. Lancio di Ruben Sosa, controllo perfetto in area e destro sul palo lontano, come un attaccante di classe. Oppure come quel pazzo scriteriato di Nicola Berti
È la Pasqua del 1995 e a Milano si gioca uno dei derby meno equilibrati di sempre. Vero è che son partite in cui pronostico e nomi contano poco ma quella che scende in campo è una delle versioni nerazzurre più mediocri che la storia ricordi. Vinciamo 3 a 1 e l’ultimo gol è quello che resta nella storia come una delle più grandi catarsi nerazzurre di sempre. Nicola calcia al volo una palla crossata da Ruben Sosa (tema ricorrente), un destro potentissimo che sbatte sulla traversa, rimbalza sulla schiena di Sebastiano Rossi ed entra in porta. Sebastiano Rossi è in quegli anni il simbolo del potere senza fascino del Milan, monocorde e aggressivo e costringerlo all’autogol è una gioia immensa.
Ce ne sono altre di giocate notevoli di Nicolino Berti ma metterle tutte in fila sarebbe una catalogazione fredda di gesta caldissime, perché amare Nicolino significa capire l’equilibrio delicato di ogni suo gesto, la fatica immane a contenere le proprie inclinazioni e i vizi, la resistenza a ogni tentazione di essere banale e scontato come molti, troppi suoi colleghi. Nicolino giocò la sua prima stagione in una squadra che sembrava destinata a disputarsi il predominio cittadino, nazionale ed europeo con il Milan, ma non andò così. Gli anni successivi allo scudetto dei record furono un’altalena tra speranze e delusioni cocenti. Due Coppe Uefa, nessun altro scudetto. Nicolino si infortunò di nuovo e quando il fisico smise di aiutarlo lui per ripicca sabotò il fisico. Per sua stessa ammissione gli ultimi tempi a Milano furono quelli di un fantasma, il pallido ricordo di un talento enorme, di un giocatore che aveva cambiato l’interpretazione del suo ruolo tanto da affascinare anche lo stregone nemico, Arrigo Sacchi.
Quella di Nicolino con noi interisti è una storia d’amore e come tale non siamo capaci di leggerla con lucidità, anche perché è una storia mai finita, mai spezzata, un amore in cui nessuna delle due parti è mai venuta meno al suo dovere. Noi quello del ricordo e Nicola quello della fedeltà a se stesso, alla sincerità disarmante per cui è impossibile non amarlo. Nicolino ora ha due figli, vive a Piacenza ma spesso prende il volo e se ne va nelle Antille. Ha abbandonato la velleità di fare di se stesso un commentatore televisivo perché non c’è gusto in Italia a essere liberi e intelligenti come Nicolino.
Quel pomeriggio caldo del 1989 l’ho rivissuto mille volte, avevo registrato su VHS tutte le trasmissioni sportive, che poi all’epoca non erano nemmeno tante. Il pezzo dell’intervista in cui Nicolino dice è qui la festa, Jovanotti lo so a memoria. La mimica, le pause, il ciuffo.
Dire quella frase all’epoca voleva dire qualcosa. Lorenzo ha 7 mesi più di Nicola ed entrambi rappresentavano la leggerezza e la forza, la possibilità di divertirsi e di ridersi addosso, la dissacrazione dell’esistente. Il titolo di quella canzone era l’inno di una generazione fieramente disimpegnata, per Nicolino Berti era anche il manifesto di uno stile di vita che in quella Milano non ancora travolta da scandali e nuova rabbia sembrava possibile e giusto. Lorenzo e Nicolino. Io non li ho mai visti insieme e nemmeno so se si siano mai incrociati in quelle interminabili notti che uno cantava e l’altro nascondeva ad allenatori e tifosi, ma so che si sarebbero voluti bene o almeno mi piace pensarlo. Perché se all’inferno delle verità si mente col sorriso, io a entrambi devo il paradiso dei miei 16 anni e la bellezza assoluta di alcuni momenti.
Il calcio è feroce e il tifo condiziona i giudizi e cancella ogni obiettività. Di Nicola Berti vi diranno che era scarso, sgraziato e insopportabile. Lo diranno soprattutto quelli che non l’hanno mai visto giocare. Pazienza, la blasfemia è un problema di chi la pratica. Noi che invece siamo innamorati di quella corsa potente, dei calzettoni abbassati e della generosità continueremo a considerarlo uno dei più grandi giocatori della storia dell’Inter. Perché a chi ti ha regalato 10 secondi come quelli di Monaco non puoi che voler bene per una vita intera, tu ragazzo fortunato ad averli vissuti, lui ragazzo magico ad averteli regalati.
La tristezza è ripensare a Nicola Berti avendo ancora davanti agli occhi la patetica scampagnata di 11 smidollati in gita, presi in giro da quello stesso Bayern sbeffeggiato da Nicolino 27 anni fa e dal Príncipe 6 anni fa. Le divise di allora e di oggi segnano la differenza: la semplice, bellissima, divisa nera e AZZURRA del 1988/1989 ERA l’Inter. Quella nera e BLU, più nera che blu, con un po’ di nero nel blu e un po’ di blu nel nero, resa ridicola da quei calzettoni gialli che ricordano i guanti di Topolino, NON È l’Inter. Forse però è giusto così, perché nessuno dei giocatori di oggi merita di indossare la vera maglia dell’Inter, quella che nella foto indossano Aldo Serena, Nicolino e Lothar: forse è giusto che i pagliacci di oggi vadano in giro in blu di Prussia con inserti by Walt Disney.
Io sono tra Quelli a cui hai regalato un sogno , sogno che dura ancora……grazie Nic
indimenticabile Nicolino, e i momenti che hai citato. Giocatore istintivo, sicuramente non “bello” stilisticamente, ma tremendamente efficace. Forte nei contrasti, la corsa che ribaltava il fronte di gioco, e anche un tempismo fantastico negli inserimenti senza palla.
Io ho alcune altre sue istantanee che non si cancellano. La prima mi sa che me la ricordo solo io; primissimo derby per lui, ancora precampionato, nei primi minuti sradica un pallone dai piedi di Rijkaard (!), lo lascia lì a terra e riparte in progressione.
Poi ancora il derby del novembre 1990, partita di rara bruttezza su un prato di San Siro molto malridotto, e lui che nel finale mette dentro di testa un cross di Klinsmann, mentre Baresi e Costacurta fanno.. il saluto romano all’arbitro 😀 .
E la “rasoiata” contro l’Aston Villa, che fu il secondo gol di quella grandissima rimonta: una traiettoria assolutamente alla Berti, una lucida follia che si andò ad infilare giusto giusto dietro al palo.
E quel 1993/94 fece capire, nel bene e nel male, quanto Nicola fosse insostituibile per quell’Inter. Lui si massacrò un ginocchio contro la Cremonese, credo, e per colpa del terreno di San Siro, che aveva già mietuto varie altre vittime. E fu un duro colpo per Bagnoli, perché a centrocampo non aveva nessun altro uomo davvero veloce o esplosivo. Poi quando tornò trovò Marini, una possibile retrocessione da scongiurare ed una Coppa Uefa da vincere. Ed un nuovo Mondiale da giocare, grazie appunto allo stregone nemico, come lo hai chiamato tu.. così stregone da decidere di rimettere Nicola sulla fascia a fare l’ala offensiva, ruolo che non ricopriva da almeno 7 anni, quando Eriksson alla Fiorentina capì che quel ragazzone un po’ scarso nel dribbling e nel tocco poteva però essere devastante nel mezzo con tutte le altre doti che aveva… Ma queste sono altre storie, in azzurro e in viola. Il nostro Nicolino va ricordato… in nerazzurro
Ma come si fa a dire che “stilisticamente” non era bello da vedere……..io sono INTERISTA da più di 50 anni e vorrei ancora gente “stilisticamente” brutta ma VERA come Nicolino nella mia Squadra