Il Loggionista
Nel ’97 avevo quattordici anni, una mattonella di brufoli in faccia, un corpo che perfino Madre Teresa avrebbe ritenuto irricevibile e una pena aggiuntiva: non poter usare il motorino a Milano, “che è tanto pericoloso”. Non ero l’unico a sognare di essere invisibile, in classe. Il metro della mia impopolarità rimane impresso nella finale del torneo di calcetto che conquistammo grazie ad una delazione. Il prof di ginnastica non si era accorto che gli avversari schieravano un paio di fuori quota. La nostra disfatta sul campo venne cancellata e passammo a tavolino. Alla fine dell’anno ero diventato anche “sbirro”.
Però, nascosto tra zainetti di sfiga, le risatine delle compagne ad ogni ingresso in classe e qualche piccolo episodio di bullismo (rimanere appeso all’attaccapanni del corridoio per tutto l’intervallo non era male, in fondo, ma posso dirlo solo adesso), avevo un amico ed un eroe.
Il mio amico M. era palesemente figlio di un massone. In casa sua c’erano un sacco di affreschi strani, triangoli disegnati, compassi alle pareti, tutto un immaginario che allora mi sembrava solo di pessimo gusto. Studiavamo sempre assieme, con M.
Poco, e male, anche perché sua mamma, alle cinque, anziché offrirci il thè sfornava un pesantissimo spezzatino con le patate arricchito da ricchi bicchieri di bonarda. Ogni giorno. Rifiutare era impossibile. Le prime sbronze della mia vita le ho prese tra triangoli e compassi. Col Rocci aperto sul tavolo. Un piatto di spezzatino a lato. E i discorsi che dall’aoristo finivano sempre sul calcio. Biascicando.
M. era il mio lato oscuro. Era bello e pieno di ragazze. Fumava le canne e in vacanza andava in discoteca. Poteva fare tutto quello che a me era proibito e che in fondo nemmeno sognavo. Per questo passavamo tutti i sabati sera assieme. Sua mamma sperava che la mia compagnia lo tenesse a bada. Mia mamma, che la sua compagnia mi svegliasse. Noi ci volevamo bene perché in una classe di tutte ragazze eravamo i soli a parlare di calcio. Giocavamo assieme con una intesa rara, da Holly e Benji. Lui spaccava le difese e io facevo gol, l’unica cosa in cui mettevo un po’ di cattiveria. Ci trovavamo senza guardarci e dopo ogni gol ci abbracciavamo come due bambini. Forse perché eravamo davvero due bambini, anche se scavalcando le transenne di San Siro ci sembrava di essere adulti e consumati.
Quell’anno Telemontecarlo regalava in diretta una partita del campionato spagnolo. Tutti i sabati sera. Non c’era Sky, internet era una parola stramba e di smartphone nemmeno l’intenzione. Eppure di Ronaldo si parlava già tantissimo. M. accendeva un cannone, nella nebbia davanti allo schermo potevo intravedere solo questo folletto brasiliano in maglia rossoblù, o verde chiaro, che tagliava le difese slalomando e mettendoli a sedere tutti.
Ronaldo non ci sembrava vero. E i nostri sabato sera quattordicenni, in casa, sembravano proiezioni da un’altra dimensione. Pregavamo che venisse a Milano. Era un appuntamento fisso.
Poi Ronaldo è arrivato da noi. Aveva le fattezze di un cartone animato ed era impossibile volergli male. Faceva delle cose che non avevamo mai visto fare a nessuno. Provavamo ad imitarlo rendendoci ridicoli. Ma eravamo felici. Avevo un amico ed un eroe, Ronaldo. Quando abbiamo vinto la UEFA ho pianto un po’, come fosse un riscatto. Quando ci hanno rubato il campionato ho ritagliato la foto del fallo di Juliano e l’ho messa da parte, perché era la plastica rappresentazione dell’ingiustizia, e pensavo a quel fallo anche quando mi interrogavano a sorpresa, o collezionavano un due di picche perfino da una ragazzina con l’apparecchio: ingiustizia, come Ronaldo. Incompreso, come Ronaldo.
Intanto le canne di M. divennero troppe. A scuola si faceva vedere meno e anche i nostri pomeriggi si diradavano. Il combinato disposto dalle nostre mamme era fallito. Nuovi amici, nuove compagnie, qualche puntata scavalcando allo stadio come vecchi reduci, ma poco di più. Comunità, mi disse sua mamma offrendo spezzatino agli amici di suo fratello. Io non capivo. Avevo perso un amico. Mi era rimasto l’eroe.
La mia personale rinascita sarebbe arrivata pochi mesi dopo. Mi piace farla coincidere non solo con la fine della pubertà ma anche con il momento in cui mia mamma si convinse che andare in giro in scooter non era così pericoloso. Anche perché il liceo distava ottocento metri da casa. Lo Stadio molti di più, ma con Ronie in campo non poteva succedermi nulla.

Luiz Nazario da Lima è stato il mio romanzo di formazione. Non sono riuscito a fischiarlo nemmeno quando, imbolsito, un Elvis fine carriera, ci ha segnato contro con la maglia del Milan. È bastato Cruz a ribaltare la partita. Eravamo tutti più grandi, più vaccinati ai dispiaceri, più consapevoli. Ma non riuscivo a volergli male. E secondo me nemmeno lui, a noi. Con quella pancetta rossonera risultava poco credibile perfino a se stesso. Una copia conforme del suo stesso mito. Una pagina che avrebbe evitato volentieri.
Guardo a quegli anni con immensa tenerezza. L’idea che Ronie possa compierne quarant’anni fa effetto, soprattutto se ne hai trentacinque e vivi in un paese in cui l’orologio biologico entra nell’agenda quotidiana per una réclame di un ministero, e non perché mancano lavoro fisso e asili nido. Ma sono altre storie. Chissà come sta Ronie, oggi. E chissà che fine ha fatto il mio amico M. Domenica aspetto un attimo ad entrare a San Siro. Magari sbuca dall’ippodromo e proviamo a scavalcare, come una volta. Sarebbe un sogno bellissimo, no? Magari ci rolliamo una canna, fumo anch’io per la prima volta e insieme ci mettiamo a pregare il nostro santo laico. “Massimo, ti prego. Ce lo compri Ronaldo?”
bellissimo. Di solito non ci si commuove di mattina (chissà perché) ma io son qua con gli occhi lucidi per quello che ho letto. Grazie. E auguri Ronie, impossibile odiarti, rimani nella memoria negli occhi e nel cuore come nessuno