di Hendrik van der Decken
A fine dello scorso ottobre, in preda ad una arrabbiatura cosmica causata tanto per cambiare dalla nostra Beneamata, avevo cercato di analizzare in maniera più fredda possibile la causa prima dei disastri cui stavamo assistendo da troppi anni, culminati con il balletto agostano della panchina e la via crucis arancione di un Frank de Boer più vittima che colpevole dei risultati della squadra, per quanto come era ovvio date le circostanze, di errori ne abbia fatti parecchi anche lui. In quel pezzo avevo solo dato voce a ciò che tantissimi tifosi interisti pensavano già: senza una coerente strategia applicata dal vertice societario, avremmo continuamente rivissuto le stesse situazioni fomite di incazzature (erano anni che sognavo di scrivere “fomite”, non lo faccio più, lo giuro) ed al contempo proponevo dal basso della mia ignoranza ciò che la proprietà avrebbe dovuto fare.
Ora, a distanza di qualche mese, e sicuramente complice qualche vittoria consecutiva che ha dato di nuovo fiducia all’ambiente e speranza di non aver buttato via del tutto la stagione, l’atmosfera sembra migliore e molte piccole cose emergono alla superficie, indicando che forse siamo finalmente sulla strada giusta. E parlo più della società che del campo, nonostante i punti fatti nella gestione Pioli finora siano decisamente tanti.
Personalmente, almeno in modo razionale, non credo in alcun modo nella possibilità di agganciare il terzo posto. Poi come sempre il tifoso che è in me e per definizione (e giustamente, aggiungerei) razionale non è, spera di vincerle tutte da qui a giugno, compresa coppa Italia e partitelle del giovedì. Però ciò che vorrei dire oggi è abbastanza slegato dai risultati: scrivo infatti alla vigilia di Inter-Chievo, e per tutto quanto brevemente accennato la ritengo ininfluente ai fini del discorso. Vediamo.
Abbiamo assistito a un cambio netto di direzione societaria, anche se nella pratica il cambio ai vertici non è stata una rivoluzione totale: l’amministratore delegato Bolingbroke è stato sostituito all’inizio di novembre, rimpiazzato da un uomo di fiducia di Jindong Zhang, Jun Lio, segno inequivocabile che il tempo della transizione morbida tra il vecchio presidente Thohir e il nuovo era finito. Approfitto qua per chiarire una delle cose che sin dal principio erano state imputate alla nuova proprietà cinese, vale a dire quella di aver lasciato al timone della gestione esecutiva Thohir ed i suoi uomini: con molto buon senso e dimostrando un’ammirevole mancanza di arroganza, Jindong Zhang era ed è molto consapevole della differenza di gestione di un club come l’Inter rispetto alle esperienze cinesi vissute dal suo gruppo fino ad allora, senza contare l’ovvia mancanza di conoscenza dell’ambiente nerazzurro e del calcio italiano. Lasciare momentaneamente chi era già alla guida del club da due anni era quindi la cosa più logica da fare in quel momento, anche se poi come abbiamo visto la cosa ha causato dei problemi, e non di poco conto.
Dopo il fallimento dell’avventura di de Boer sulla panchina interista, la proprietà non ha esitato a prendere in mano con più decisione l’Inter, piazzando in pianta stabile a Milano non solo il nuovo amministratore delegato ma anche il figlio del presidente, Steven Zhang. Sarà un caso oppure no (e io, come molti altri, credo di no), ma da quel momento in poi, insieme ad una gestione migliore della squadra dal punto di vista mentale e atletico, più che tecnico, operata da Stefano Pioli, le cose sono decisamente migliorate sul piano dei risultati.
Ma più di quelli, che risentono sempre in ogni caso di una certa dose di aleatorietà, ci sono altre azioni che sono chiarissimi indicatori di una strategia ben precisa, ad esempio l’acquisto di Gagliardini dall’Atalanta (en passant: un saluto agli espertoni dei giornali sportivi e non che davano per impossibile l’acquisto causa limiti imposti al Biscione dagli accordi stipulati sul Financial Fair Play).
Ora, cerchiamo di chiarire subito un punto: avere una strategia non vuol dire automaticamente avere successo grazie a quella strategia. Può andar bene o può andar male: banalmente, dipende dalla bontà della strategia adottata, dalle modalità di esecuzione e da chi la esegue. Però la differenza col recente passato in cui i mezzi e i modo per raggiungere l’obiettivo dichiarato erano palesemente insufficienti e inadatti, mi sembra evidente (risparmio a chi legge la pena di ricordare gli ultimi cinque anni, rievocando acquisti e obiettivi dichiarati senza il minimo senso del reale).
Se n’è parlato tra tifosi, in giro per la rete, mille volte nell’ultimo quinquennio con moltisime divergenze di opinione, che alla fine è il bello del parlare di calcio guardandolo dagli spalti o dalla poltrona: se non hai i mezzi economici per costruire una squadra competitiva nell’immediato, devi avere la pazienza e l’abilità di costruirla con meno soldi in un tempo più lungo. Per fare questo hai bisogno di un programma e di gente capace: strategia, appunto.
Il Real Madrid ha una strategia semplice: compro chi voglio e se metto insieme gli undici più forti, vinco. Semplice, lineare, costoso. Ma è comunque una strategia precisa. All’opposto, abbiamo visto come negli anni squadre con meno risorse abbiano costruito in altro modo la loro competitività (Borussia Dortmund e Atletico Madrid, ad esempio). In Italia, l’Inter di Massimo Moratti ha cercato attraverso una potenza di fuoco economica con pochi paragoni (e tutta di tasca propria…) di sopperire a certi handicap telefonici e arbitrali: in fondo, anche questa è stata una strategia precisa, ed è anche per questo che nessun tifoso dell’Inter degno di questo nome potrà mai esimersi dal dire grazie all’ex presidente nerazzurro.
Qual è la strategia della proprietà Suning? A parte lo scopo primario di marketing sottostante l’acquisto del club, ancora non mi è chiaro cosa esattamente abbiano in mente per tornare ai vertici in poco tempo, a parte avere delle risorse economiche apparentemente spaventose, ma bisogna considerare che sono un po’ duro di comprendonio. Si parla molto di acquisti che abbiano certe caratteristiche ben precise: giovani, italiani, che siano molto forti o molto promettenti, e Gagliardini sembra il primo di una discreta serie, almeno stando alle voci che girano. Perché questo tipo di giocatori? Non ne ho idea. Storicamente, e nella maggioranza dei casi, il tifoso interista ha bellamente mostrato grande indifferenza (eufemismo) per il passaporto dei propri giocatori.
Personalmente, sono uno di quelli: datemi undici fuoriclasse col passaporto delle Isole Fiji e sarò un tifoso ultra-felice. Mi sento decisamente vicino a ciò che Ivan Ramiro Cordoba disse in un’intervista di qualche anno fa, dove al solito aveva ricevuto una domanda riguardo all’assenza di giocatori italiani di rilievo tra le fila nerazzurre (domande che ora non fa più nessuno, chissà perché: adesso va benissimo che l’Udinese affronti l’Inter senza un italiano nell’undici titolare). Cordoba rispose che “a parte che qua il passaporto italiano ce l’abbiamo in tanti, io credo che quando vieni qui a giocare conti solo se tu sei da Inter o se non lo sei. Se lo sei, non è importante da dove vieni”.
Ma rispetto in maniera assoluta chi ha il piacere di vedere giocatori italiani nella squadra, e chi tifando la nazionale pensi (ad assoluta ragione, tra l’altro) che avere molti giocatori italiani nelle squadre di vertice permetta loro di acquisire un’abitudine al giocare partite ad alto livello che può, conseguentemente, permettere a questi giocatori di poter fare molto meglio anche quando indosseranno la maglia azzurra.
Si dice che in uno degli ultimi confronti con la dirigenza, de Boer abbia incoraggiato la costruzione di un nucleo di giocatori giovani e italiani in modo da stabilire una base solida e duratura che potesse sviluppare non solo un senso di appartenenza più forte ma anche in modo più rapido grazie alla comunanza di lingua e cultura. Non so se sia vero, per quanto conoscendo ciò che ha fatto all’Ajax l’allenatore olandese la cosa mi sembra plausibile. Può darsi che la società abbia comunque ritenuto un punto valido quello sollevato dall’ex allenatore nerazzurro ed abbia deciso di dare seguito alla cosa, cominciando a mettere in atto le mosse necessarie per poter arrivare ad avere quella base di giocatori italiani, e quindi alla fine la strategia dell’acquistare giocatori italiani forti o di grande prospettiva avrebbe senso.
Il punto, però, non è neanche quello di capire esattamente cosa c’è dietro, almeno per me: il punto è che finalmente abbiamo una strategia! Cioè abbiamo una serie di azioni e programmi coordinati per un fine ben preciso che vengono messe in atto ed eseguite coerentemente. Negli ultimi cinque anni non ho visto nulla del genere, e men che meno negli ultimi cinque mesi: allenatori che mollano dopo un mese di ritiro, allenatori scelti con superficialità (eufemismo) e cacciati dopo meno di tre mesi, mercato fatto con criteri misteriosi, e negli ultimi cinque anni senza criterio alcuno, se non quello del nome buono a poco prezzo e se poi non è funzionale al gioco, pazienza.
Sono talmente felice di sapere che c’è un disegno dietro le azioni della società che non me ne frega neanche nulla di sapere esattamente qual è: lo scopriremo solo vivendo, e speriamo di scoprirlo vincendo. Insomma, alla fine ecco quel che volevo dire: mi sembra che finalmente ci sia del criterio, ci sia un’idea che si muove dietro a ciò che vediamo in campo. E poiché, so di ripetermi, non penso che si potrà mai tornare ai massimi livelli senza una società che abbia le idee chiare su ciò che vuole e su come ottenerlo, tutto ciò mi rende contento quasi come se fossimo già arrivati tra i primi tre. Il bello, davvero stavolta, sembra che debba ancora venire, e io non vedo l’ora.
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