Perdonaci Dennis, non sapevamo

letture lunghe della domenica

Non ricordo la sequenza esatta ma fa poca differenza, il gol di Dennis Bergkamp all’Inghilterra in una partita di qualificazione ai Mondiali 1994 finita 2 a 2 e l’annuncio del suo passaggio all’Inter arrivarono uno a pochi giorni di distanza dall’altro e regalarono a tutti noi un’inedita sensazione di futura onnipotenza, il sospetto di aver preso il giocatore più forte del mondo, per di più olandese in barba alla tradizione di quell’altra squadra di Milano che ai tempi andava per la maggiore. Erano i giorni in cui una scombinata banda di outsider agli ordini di Osvaldo Bagnoli si giocava lo scudetto con la spensieratezza del calabrone che non sa di non poter volare (non fosse stato per Taccola, che all’improvviso ebbe le vertigini, chissà come sarebbe finita quell’anno). L’acquisto dell’olandese biondo e altero ci spinse a un’operazione di semplice somma:

Squadra Seconda Classificata + Dennis Bergkamp = Scudetto

Non faceva una piega e tutti ringraziammo commossi lo sforzo dell’Ernesto, pronto a scucire di tasca sua altri 18 miliardi pur di regalare un sorriso al popolo afflitto ma mai domo degli esteti nerazzurri. Era bello Dennis, la corsa leggera e un cervello periferico montato nel piede destro, piuma o ferro a seconda delle necessità.

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In 7 anni di Ajax aveva segnato 122 gol in 239 partite, numeri impressionanti ma comunque meno delle immagini di quelle partite. Manuale di tattica come tutti i prodotti del vivaio della squadra di Amsterdam, Dennis era una strana seconda punta con grande propensione alla manovra. Ai tempi belli lo si sarebbe detto un trequartista, ora rischierebbe di finire a giocare spalle alla porta a fare il falso nueve e sarebbe un delitto. Dennis amava tirare da lontano tanto quanto rintronare i suoi marcatori a suon di finte e scatti mandati a memoria in onore del suo idolo Glen Hoddle, il secondo calciatore britannico nella vita di Bergkamp (il primo è stato Denis Law, cui deve il nome con l’aggiunta di una enne). Nel 1993 era da tempo il faro della nazionale olandese in cui aveva esordito 3 anni prima, aveva già vinto una Coppa Uefa da protagonista e giocava con la sicurezza del campione consumato. Il 28 aprile 1993 segnò quel gol meraviglioso e in tanti pensammo che la traversata nel deserto fosse finita. Giro di palla veloce a centrocampo, lancio a scavalcare i centrali difensivi inglesi e Dennis Bergkamp che tira al volo anticipando il movimento, divertendosi a lasciare Chris Woods fermo sulla linea di porta a chiedersi cosa fosse successo. Minuto ’34, perché mica è vero che gli scudetti li vincevamo solo a luglio e agosto, quella volta accadde ad aprile.

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Era timido Dennis ma nessuno di noi pensava che sarebbe stato un gran problema, si era portato dietro il suo amico Wim Jonk e tanto sarebbe bastato. Che poi su Jonk bisognerebbe scrivere interi manuali, l’uomo di Volendam, il giocatore che di secondo nome faceva Maria e che solo all’apparenza era quieto e responsabile. Wim Jonk che fu capace di farci alzare una Coppa Uefa, centrocampista di genio e tecnica, uomo intelligente ma sul limitare della follia nella vita privata. Wim Jonk che segnò il gol di una vittoria importante al termine di una stagione dolorosa e strana, la prima di Dennis Bergkamp all’Inter, quella che doveva essere l’annata dei trionfi e rischiò di finire malissimo.

Bergkamp era abituato a una squadra in perenne movimento, costruita per tenere il pallone e giocarlo sempre, nessuna concessione alla palla lunga, mai una partita difensiva in 24 anni. Osvaldo Bagnoli era un allenatore eccezionale con il pallino del pragmatismo e della prudenza come arma letale. Anni in contropiede alla velocità della luce, campioni come Preben Elkjær a Ruben Sosa isolati davanti a rincorrere i palloni sparacchiati da 3 centrali (due marcatori e un libero), aiutati da due terzini e dalla copertura di due mediani. Un fortino inaccessibile ma anche impossibilitato a produrre gioco offensivo. Ruben Sosa ci era andato a nozze l’anno prima, caterve di gol e sgroppate funamboliche in uno dei suoi tanti anni di grazia. Totò Schillaci ci aveva messo del suo e la coppia sembrava funzionare bene, con Shalimov ispirato a compensare e parare le maledizioni di San Siro contro l’incredibile Darko Pancev e il depresso Matthias Sammer (uno che poi vincerà il Pallone d’Oro cambiando ruolo e attitudine), a bighellonare indeciso per il centro del campo. Usando una metafora che piaceva tanto all’Osvaldo, la squadra da tornio mise paura a quella miliardaria e abituata a vincere. Nessuno sa come reagì Bagnoli all’acquisto di Bergkamp e di quell’altro lì, il Giònc come lo chiamava lui, ma conoscendo la sua predilezione per i soldati e per i matti possiamo solo immaginare che non abbia esultato né stappato una bottiglia di quelle buone. Un giocatore come un altro, e quell’accoglienza tiepida fu il primo e più colossale degli errori.

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Perché Dennis Bergkamp era una gemma rara, non un giocatore come tutti gli altri. Bagnoli è stato uno splendido costruttore di gruppi, domatore di caratteri bizzosi e motivatore di uomini ma con Bergkamp ha fatto una serie di errori imperdonabili (non è stato il solo). Lo spogliatoio nerazzurro gode di una fama luciferina, un luogo comune che nei decenni è stato smentito di rado. Tanti talenti, pochi leader e una netta propensione a far uscire notizie e sottil venticelli che ci metton poco a diventare uragani. La squadra di quell’anno proponeva una buona miscellanea di senatori (Beppe Bergomi, Riccardo Ferri, Zenga, Nicola Berti e Alessandro Bianchi), giocatori di esperienza (Battistini, Schillaci, Fontolan e Ciccio Dell’Anno), e gregari (Manicone, Angelo Orlando; Pasquale Festa e i fratelli A ed Emme Paganin). Gli stranieri erano l’orribile Darko Pancev, Igor Shalimov (reduce da un’annata formidabile ma travolto dall’amore per una ballerina di night e presto perso alla causa), i due olandesi chiamati a cancellare la leggenda dei tulipani milanisti e lui, Ruben Sosa.

Ruben-Sosa

Sul portentoso casinista di Montevideo tocca aprire una parentesi. Arrivato dalla Lazio per sostituire Klinsmann, fece molto di più nella stagione 1992/93. Estroverso, furbo e virtuoso com’era fece innamorare tutti gli interisti trascinando la squadra a un passo dall’impresa più incredibile: completare la lunga rimonta sul Milan di Capello e spezzare l’incantesimo degli invincibili. Fatale fu il gol del pareggio di Gullit a sei minuti dalla fine del derby che avrebbe definitivamente invertito la tendenza e portato l’Inter a -5, che certo nell’epoca dei 2 punti per vittoria era ancora un distacco enorme, ma con 7 giornate da giocare apriva scenari nuovi per un campionato che sembrava chiuso da novembre. Ruben era un mancino geniale, arruffapopoli e seduttore, San Siro se ne innamorò e lui come ogni prima donna pretese il camerino più grande e nessun tipo di competizione interna. Sosa era un passionale, nessuna timidezza, tutto il contrario di Bergkamp.

Ricapitoliamo. Dennis arriva in Italia nell’estate del 1993, comprato da una squadra che pratica il gioco più diverso possibile da quello dell’Ajax, allenata da un burbero catenacciaro senza passione per i fronzoli e con un compagno di reparto che vede come fumo negli occhi l’inserimento di una stella di prima grandezza. Le premesse sono disastrose o meglio lo sono per chiunque riesca a scindere le sfavillanti prospettive agostane da quello che veramente succede nel motore di una squadra. Nonostante tutto ciò Dennis non parte male. San Siro attende il suo primo gol per 3 giornate, nemmeno troppo. Il battesimo arriva contro la Cremonese al 19′, mentre l’altro olandese, quello spilungone del Gionc che ha il brutto vizio di giocare sempre la palla, ha già segnato alla prima in casa contro la Reggiana. Anzi ha proprio segnato il primo gol nerazzurro di una stagione di cui segnerà anche l’ultimo e più importante, l’uno a zero nella partita di ritorno contro l’Austria Salisburgo che regala a una squadra ormai alla deriva la Coppa Uefa.

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Non divaghiamo. L’Inter fa 14 punti nelle prime 10 giornate (il campionato 1993/94 fu l’ultimo dei 2 punti per vittoria), e arriva al derby carica di aspettative e convinta di potersela giocare anche senza barricate. Perde 2 a 1, Dennis segna il rigore che riduce le distanze ma la partita finisce così. La settimana prima Ruben Sosa aveva polverizzato il Parma con una tripletta. I due non giocano mai bene insieme perché nessuno gioca per l’altro. In particolare è Sosa a mostrare tutta la sua insofferenza in campo e fuori. Testimoni oculari parlano di allenamenti come calvari per il timido Bergkamp. Scherzi, sfottò e pure qualcosa di più, ai limiti del nonnismo. A quel punto viene naturale pensare che la società intervenga per preservare un patrimonio enorme, ma non è così. Dennis viene abbandonato al suo destino, chi a febbraio lascia Appiano Gentile è l’Osvaldo. L’Inter è sesta ma Pellegrini non se ne fa una ragione, frustrato dalla solita corsa sfrenata del Milan e da quei 25 miliardi investiti e non valorizzati.

«Via, si dimetta», gli aveva chiesto Pellegrini.

«No, si vergogni», aveva risposto l’Osvaldo.

È l’inizio della fine. La squadra viene affidata a uno di casa, Pinna Marini, che la conduce come se fosse un soggetto bipolare. Una catastrofe in campionato, tredicesimo posto e l’inedito rischio retrocessione sventato nelle ultime 3 giornate, una camminata trionfale in Coppa Uefa. Dennis Bergkamp vivacchia in Italia ma in Uefa mostra di ricordare bene come si vincono le partite. Già a settembre dai 32esimi contro il Rapid Bucarest l’olandese mette in mostra un repertorio fenomenale. Su cross di Shalimov segna un gran gol in acrobazia (quella sera saranno 3 le sue reti). Ne fa 2 all’Apollon Limassol, uno per partita, e altrettanti al Norwich con la stessa modalità. L’ultimo degli 8 gol che gli valgono il titolo di capocannoniere del torneo lo realizza al Cagliari nella semifinale dell’amicizia. In Europa Bergkamp è un altro giocatore, più sicuro di sé, meno timido. Gli avversari lo conoscono e paradossalmente questo è un attestato di stima, quasi che i nemici fossero più amici degli amici o presunti tali.

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Ci mette più grinta e nonostante viaggiare gli costi molto (Bergkamp è terrorizzato dagli aerei. Ci sono due versioni, una dice che tutto è nato quando volando sulla Sicilia per un torneo giovanile una turbolenza fece perdere quota all’apparecchio e per qualche minuto a bordo regnò il panico. L’altra fa risalire il problema a uno scherzo mal riuscito durante i Mondiali del 1994. Fatto sta che dal suo trasferimento in Inghilterra in poi smetterà definitivamente di volare, sconfitto dall’aviophobia), la Uefa è il palcoscenico che restituisce agli ineristi la sensazione di avere a che fare con un campione. Marini ha il problema di salvare la pelle e non va troppo per il sottile, l’impressione è quella di una squadra autogestita in cui si gioca un po’ per clan e ci si passa la palla per convenienza. 8 gol in Coppa Uefa, 8 in campionato e 2 in Coppa Italia. Quell’estate si giocano i Mondiali di Calcio americani e Dennis ha voglia di scrollarsi di dosso la brutta sensazione di essere di troppo.

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Negli USA Bergkamp segna 3 gol in 4 partite e sembra un altro giocatore. Determinato, sicuro e felice come uno che dopo un anno di servizio militare torna a casa per le vacanze più belle di sempre. Uno dei tre gol lo segna al Brasile nella partita più intensa dei Mondiali, l’Olanda costruisce e insegna calcio e un Brasile sparagnino porta a casa la vittoria grazie a un duo d’attacco portentoso e a una linea mediana d’acciaio. Dennis sembra rinato ma ci sono due fattori che fin da agosto condizionano la sua seconda stagione di sofferenza nerazzurra. Il primo sono le tossine di un mondiale faticoso, giocato con temperature folli e spostamenti massacranti. Il secondo è il signore che Pellegrini ha chiamato sulla panchina dell’Inter per cercare il rilancio dopo la stagione della quasi retrocessione. Si chiama Ottavio Bianchi e vederlo sorridere è raro quanto un 6 al Superenalotto.

Il secondo anno di Dennis Bergkamp all’Inter è un incubo. Il gioco resta modesto, la squadra cambia poco (se ne vanno Zenga e Ferri, arrivano Pagliuca, Orlandini e Bia), quello che non cambia è il rapporto complicatissimo tra Sosa e Bergkamp. A settembre la squadra è fuori dalla Coppa Uefa, nonostante il gol di Dennis contro l’Aston Villa (che passa ai rigori), in campionato non compete mai e lentamente il rapporto tra l’olandese e l’allenatore si logora. Bergkamp mette insieme 25 presenze e 5 gol, passa 6 mesi senza segnare e subisce una collezione crescente di fischi che lo deprimono terribilmente. Gira come un fantasma per il campo e negli annali resta la sua sostituzione al 25′ di una brutta, bruttissima partita casalinga contro la Reggiana. Esce Bergkamp ed entra Veronese, nella speranza che almeno lui abbia voglia di giocare.

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Il 25 febbraio del 1995 Massimo Moratti diventa Presidente dell’Inter. Il figlio di Angelo è un vero esteta, ama il calcio ed è bauscia dino al midollo. Sulla carta dovrebbe innamorarsi di Bergkamp e lo stesso olandese conferma che in occasione del loro primo incontro Moratti gli chiede di restare, che le cose sarebbero cambiate in meglio. Per banale che sia la vita è davvero una sequenza di porte girevoli. Moratti ha passato anni a corteggiare e arruolare talenti da tutto il mondo ma il primo, quello che aveva in casa, se l’è fatto sfuggire. Poco importa se il Presidente abbia detto o meno a Bruce Rioch (Manager dell’Arsenal): «Sarete fortunati se farà 10 gol». Bergkamp è un tipo sincero e l’unica volta che ha voluto parlare a lungo di Inter non è riuscito a nascondere amarezza e delusione:

“Cruijff non voleva che andassi, preferiva che lo raggiungessi a Barcellona. Ma all’epoca la A era il top, al Milan non volevo andare perché l’avevano già scelto Gullit, Rijkaard e Van Basten, dovevo scegliere tra Inter e Juve. Ma i dirigenti dell’Inter mi fecero tante promesse e dissero: ‘Giocheremo un calcio più offensivo’. E lo facemmo, ma solo il primo mese. Non era quello che avevo sperato. Ma l’Italia è stata importante per la mia crescita”

Alla fine di un biennio terribile ma utile (a lui), Dennis Bergkamp se n’è andato. In 11 anni di Arsenal ha riscritto la storia del Gunners. Ha vinto tre campionati, fatto cose memorabili e ha dimostrato di essere molto più che un campione. Di quelli ne nascono una manciata a generazione. Dennis Bergkamp era un fuoriclasse unico, la classe fatta calcio. All’esterno dell’Emirates Stadium ci sono alcune statue celebrative dei più grandi giocatori della storia dell’Arsenal. Sono poche, un Pantheon sportivo molto ristretto. Quella di Dennis lo rappresenta nell’atto di stoppare la palla a un’altezza notevole in una partita del 2003 contro il Newcastle. Un gesto plastico, elegante, bellissimo.

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Il calcio sa essere ingiusto. Bergkamp a San Siro ha raccolto più fischi che applausi e se n’è andato con l’etichetta del musone, del depresso, del mezzo giocatore. Qualche buontempone durante la seconda stagione nerazzurra ha provato ad accostarlo a Darko Pancev, misurando il fallimento dell’uno sul calco di quello dell’altro. Anche Pancev meriterebbe un discorso a parte ma il suo orrendo passaggio dalle nostre parti resta ingiustificabile, una sequenza infinita di partite svogliate, occasioni sbagliate ed errori tecnici. Bergkamp se n’è andato tra i fischi ma è stato capace di dimenticarli in fretta e ricordarsi chi era. Per tutti noi una grande occasione sprecata, quella di passare qualche anno con uno dei giocatori più incisivi e intelligenti della sua generazione, comprato avventatamente e senza idea alcuna di come farlo giocare in una squadra di pirati del contropiede, messo da parte frettolosamente e senza rimpianti. Un po’ come comprare un veliero per ormeggiarlo in Darsena e accusarlo di essere goffo negli spazi stretti.

Ne sono passati tanti di talenti cristallini, il tuo non siamo stati capaci di riconoscerlo. Perdonaci Dennis, non sapevamo

2 thoughts on “Perdonaci Dennis, non sapevamo

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  1. Il primo errore è accostare il 2-2 segnato da Bergkamp in Olanda-Brasile al suo passaggio in nerazzurro. La partita, infatti, era valida per i quarti di finale di Usa ’94, mentre l’annuncio del trasferimento venne dato a maggio del 1993. Questa però è solo un’imprecisione storica, tutto sommato veniale.
    Il rimpianto per un giocatore, probabilmente fortissimo ma palesemente fallimentare in quel momento in quella squadra, invece, non esiste proprio! Men che meno se davvero, per tenerci lui, dovevamo rinunciare a un bomber di razza come Ruben Sosa (44 – e dico QUARANTAQUATTRO – reti in tre stagioni, delle quali una giocata con un ginocchio perennemente infiammato). Fermo restando che al termine del campionato 1994/95 andarono via entrambi, la scelta tra i due era assolutamente scontata a vantaggio dell’uruguagio. Ricordo altresì che il biondo olandese, dopo avere sbagliato un rigore decisivo alla penultima giornata a Marassi contro la Sampdoria che poteva costarci il piazzamento in zona Uefa, a precisa domanda di un giornalista rispose: “Non voglio più pensare a questo errore, adesso devo concentrarmi sulla prossima partita”. E no… non si riferiva all’ultima giornata di campionato, bensì a Bielorussia-Olanda in programma otto giorni dopo e valida per il girone di qualificazione a Euro ’96. Alla faccia dell’attaccamento alla maglia!!!

  2. Non trovo in questo articolo una sola parola sbagliata Dennis è stato uno spreco enorme e mi ha fatto ricredere sulla competenza dei tifosi.Aver preferito Sosa è una macchia che rimane e rimarrà difficile da perdonare.Perdonaci Dennis sapevamo ma eri troppo per noi.

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