Hanno festeggiato come fosse una finale di Champions League, vinta e non pareggiata. Fatta pace con il fastidio iniziale, penso abbiano ragione loro. Mica perché mi piaccia in qualche modo la teoria dello sfottò con tutte le minchiate che l’accompagnano (sono uno di quelli che non ha mai usato il telefono dopo vittorie nostre o sconfitte altrui, mi sembra una gran perdita di tempo, mi sembra di sottrarre minuti alla gioia), ma perché penso che l’impresa l’abbiano fatta eccome e che vada ben oltre il 2 a 2 conquistato alla fine del recupero più lungo di tutti i tempi. Il Milan è una squadra incollata con lo sputo, lo dico con bonomia e ammirazione, messa insieme da gente che sa di calcio ma che non aveva più denaro da spendere, un Frankenstein di pezzi difficili da assemblare e motivare, tra prestiti e parametri zero, stranieri bolsi a fine corsa e ragazzini della Primavera che ti chiedi se si siano mai fatti la barba o è ancora troppo presto.
Ebbene quella squadra che in potenza e sulla carta sarebbe orribile ha giocato e continua a giocare un campionato eccellente, un po’ come il calabrone che vola nonostante le leggi della fisica. Il merito è dell’allenatore, che non è simpatico e sta interpretando al meglio il suo ruolo di nemico (i commenti dopo i due derby, andata e ritorno, sono pessimi e ci vuole tutta la lucidità del mondo per continuare a parlare bene di Montella fingendo che non abbia rilasciato quelle interviste), ma che sa come motivare e guidare un gruppo di improvvisati.
Intendiamoci, al di là dell’astiosa interpretazione delle partite di Montella e della gestione divina del tempo dell’innovatore Orsato, il Milan sabato non avrebbe dovuto pareggiare, meritava la sconfitta e forse l’onore delle armi per il quasi assedio finale (senza mai tirare in porta, un 2 su 2 perfetto). Ma le partite son fatte anche di rabbia e voglia e lì, amici miei nerazzurri, cascano tutti i nostri numerosissimi asini. Prendiamo ad esempio l’ingresso in campo di Lapadula ed Eder. Il milanista è uno di quelli che ai tempi di Ciccio Graziani avremmo definito generoso ma sega. Corre e picchia come fosse un difensore ed è entrato con la faccia di chi potrebbe uccidere a mani nude e si è dannato l’anima per i pochi minuti della sua partita. Eder no, sembrava un dopolavorista al calcetto del giovedì, ha sbagliato i primi tre tocchi, inspiegabilmente molli, e si è spento subito. L’Inter di quest’anno, al netto degli allenatori, è un gruppo di giocatori che faticano a diventare una squadra, in cui le pulsioni del solista spesso distruggono il lavoro del coro. Ho contato almeno due rulete (Miranda e Candreva), in momenti in cui c’era da pedalare e sudare, ho visto centrocampisti che nel momento più difficile della partita facevano un metro in meno piuttosto che farne uno in più e in generale una condizione fisica disastrosa (da Torino l’Inter non corre più). Ho visto nazionali brasiliani e cileni spazzare a campanile a 10 minuti dalla fine, invitando il Milan a piantare le tende troppo vicino all’area di Handanovic perché finisse bene.
Non sono un tecnico, non ho studiato a Coverciano ma il buon senso mi impone una domanda a Pioli: perché giocare la partita perfetta per 60 minuti, perché pressare alto e imporre un ritmo elevatissimo se poi si è consapevoli di non aver benzina per arrivare alla fine? Perché a quel punto rinunciare al gioco e accettare l’assedio disperato (Montella gioca gli ultimi 10 minuti con un mostruoso e scellerato 4 – 1 – 5)? Perché in campo nessuno sembrava aver idea di come gestire quel pericolosissimo arretramento e arroccamento sulla linea della trequarti difensiva? Perché questa condizione fisica penosa? Son tutte domande alle quali sono certo che Pioli abbia buone risposte, il fatto è che non è più tempo di risposte. A ottobre l’Inter ha battuto la Juventus in una delle uniche partite di vera sofferenza per la squadra che presumibilmente porterà a casa almeno due dei tre trofei che insegue. Frank de Boer ha mostrato che esistono tanti modi di attaccare nonostante una rosa inadeguata (per le scelte di ruolo e non certo per i milioni bruciati come ogni anno, compreso i due della transizione di Thohir), e non solo un diluvio di cross per l’unica punta. De Boer è stato esonerato perché stava svalutando la rosa (sic), aveva messo fuori squadra Brozovic (quello delle ultime partite disgustose, quello del selfie nella tinozza poche ore dopo la fine del derby), e non capiva Kondogbia (che magari non è il disastro che pensava lui ma di certo nemmeno il fuoriclasse che pensavamo noi). Per imparare a giocare bisogna avere il tempo di farlo, all’olandese non è stato dato e pazienza, inutile continuare a piangerlo, a suo demerito partite sbagliate come quelle casalinghe con Palermo, Cagliari e Bologna. Pioli è stato presentato come un normalizzatore, quello che avrebbe riportato i volumi al loro naturale livello, quello che avrebbe ricostituito una situazione tranquilla da cui ripartire.
Ma se in un gruppo di giocatori come il nostro di normale non c’è niente, il compito di Pioli e la sua permanenza all’Inter rischiano di diventare una gran perdita di tempo per tutti. Se per cavare sangue dalle rape servono miracoli, forse è il caso di affidarsi a qualcuno che abbia idea di come farli. 10 allenatori in 8 anni son troppi? Può darsi, ma la confusione di questi ultimi due mesi mostra che all’Inter il basso profilo e l’understatement non funzionano e che ci vuole qualcuno che da subito sappia integrare più funzioni e occuparsi anche del mercato, senza accettarlo passivamente, perché se è vero che Ausilio sa fare piccoli miracoli in entrata (pagandoli comunque a caro prezzo), in uscita è un mezzo disastro e il suo ruolo in società è diventato un po’ troppo ampio in un tempo non sufficiente a farlo crescere professionalmente.
L’Inter è una squadra pensata male e non può essere una colpa degli allenatori, non degli ultimi due.
Ma non uccidiamoci di autoanalisi e autocritica. Con tutta probabilità non giocheremo l’Europa League, che è un peccato nonostante l’atteggiamento imbarazzante della squadra nella stagione passata. Pazienza, di nuovo. Che sia un altro (cosa forse auspicabile a questo punto), o il mite Pioli la sostanza non cambia, serve un corposo mercato in uscita e un po’ di acume in entrata, ma soprattutto serve costanza. Abbiamo una società strutturata, seria. Dirigenti che devono solo imparare a stare vicino ai giocatori, mostrare loro un modello aziendale solido che ne ispiri uno comportamentale. Ma rispetto alle ombre di 4 anni fa siamo in una situazione ideale. Il futuro è un posto bellissimo a patto di intervenire radicalmente sul materiale umano a disposizione e scegliere uno staff sportivo all’altezza di quello manageriale.
La rabbia resta. Abbiamo concesso a una società in terribile crisi, tenuta in piedi da una stagione all’arma bianca di tecnico e giocatori, di festeggiare un pareggio come fosse una vittoria. L’acquisto più caro della campagna estiva del Milan lo scorso anno? Proprio Lapadula, 9 milioni di euro. Le decine di milioni spese dall’Inter comportavano almeno la responsabilità di una stagione gagliarda, diversa da quella che si sta afflosciando nel finale e non come un incubo, nemmeno quello. Al limite una brutta pennica disturbata dalla digestione, svegliarsi più stanchi di come ci si è addormentati.
Perché più del 2 a 2 al 97′ a far male è l’indolenza, la remissività e l’aver pensato che si giocasse a figurine, che bastassero i nomi messi in fila con eleganza a vincere un derby, la partita di lotta per eccellenza.
Bravi loro, fessi noi (ripetere a piacimento).
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