di Alice Nidasio
“Non è abbastanza veloce e nemmeno molto tecnico”. Così sentenziavano anni fa Boca Junior e San Lorenzo mentre scartavano un giovanissimo Lautaro Martinez. Il problema (loro) è che era giovane anche quando a meno di 18 anni, con la maglia del Racing Avellaneda, raccoglieva l’eredità di un certo Diego Alberto Milito, rientrato in terra madre dopo aver ottenuto il titolo di Principe per le gesta compiute in Europa con l’Inter. Ed è giovane oggi, quando al Wanda Metropolitano, con la stessa maglia che ha consacrato Milito, lascia a bocca aperta i presenti con un gol capolavoro. Roba che se lo avesse segnato in campionato, si sarebbe candidato a diventare l’immagine della campagna abbonamenti della stagione successiva. Si staranno mangiando le mani il Boca e il San Lorenzo, ma nemmeno troppo in fondo, perché un talento così, l’Europa non lo lascia in Argentina. Ci ha provato l’Atletico, l’ha spuntata l’Inter. Perché quando il Principe e il Capitano ti raccontano in uno spogliatoio in Sudamerica cosa significhi essere nerazzurri, è difficile non lasciarsi affascinare e non dare la precedenza assoluta a quella scelta. E’ arrivato un po’ in sordina, come succede spesso quando i club europei importano talenti semi sconosciuti investendo con un discreto rischio sul loro potenziale. Per tre mesi abbondanti non si è saputo niente. Oggi, a meno di una settimana dal calcio d’inizio della Serie A, il commento tecnico su El Toro è che se si continua a ripetere “il calcio estivo non conta”, si finisce a fare il conto dei suoi gol tra campionato e Champions, senza nemmeno riuscire a tenerlo (il conto eh!?).
A proposito, l’unico modo in cui vuole essere chiamato è Lautaro, perché “Di Martinez ce ne sono troppi, e io voglio essere unico”. Uno che a prendersi la personalità era il primo della fila, così come la faccia tosta, la garra e…il 10 sulle spalle. Quel numero che, con 21 candeline sulla torta, non si possono permettere in tanti. Ma lui non è tanti: lui, da manifesto poetico, dice di voler essere “unico”.
E se già contro Lugano, Zenit e Lione c’erano state le prime avvisaglie, vederlo infilare Oblak con quel tiro da cineteca, ha portato conferme. Sabato sera al 31’ di Atletico – Inter erano mani nei capelli, replay a ripetizione e l’improvvisa convinzione che unico, Lautaro, lo potrebbe diventare davvero. Quello non è un gol: è un guizzo, la pennellata istintiva alla fine del quadro. E’ intelligenza tattica, perché il fantacross di Asamoah è sì una sontuosa imbeccata, ma quello là in mezzo prima anticipa i difensori e poi si coordina equilibrando tempo e velocità a perfezione. Quello è un gesto da fuoriclasse, la terza rete di un argentino che a 21 anni promette grandi cose. E di cui oggi parlano un po’ tutti: “Segna il solito Lautaro”. Il solito. Ad agosto. Nello stadio della prossima finale di Champions. E nella città dove l’Inter l’ha vinta, la sua ultima Champions. Nel 2010 a far impazzire gli interisti c’era un argentino; oggi ce ne sono due, avvolti da un’intesa naturale dentro e fuori dal campo. Il confronto è tosto, certo, ma Lautaro la faccia tosta ce l’ha. Non si spaventa, non si tira indietro e non vede l’ora di esordire nell’undici nerazzurro. Se lo farà da vice-Icardi (ruolo un po’ strettino ormai), come compagno di reparto del Capitano o da trequartista alle sue spalle nel 4-2-3-1 di Spalletti non importa. C’è l’imbarazzo della scelta, almeno sulla carta. Intanto lui si dà un bel da fare e non si risparmia. Un buon modo per ottenere la maglia da titolare. La stessa che oggi Boca, San Lorenzo e Atletico, avrebbero voluto vedergli addosso.
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