Rodrigo Sebastian Palacio, detto il Trenza, non è mai stato un tipo da folle roboanti. Non un leader da spogliatoio, per sua stessa ammissione, o un trascinatore in campo. Niente selfie mossi alla Gue Pequegno. È stato sempre discreto, mimetico, poco ingombrante. Forse anche per le sue caratteristiche fisiche, esile, elastico, quasi fragile, o per la sua posizione in campo, in eterna altalena tra prima e seconda punta. Ha sempre viaggiato a fari spenti, navigando a vista con le stelle. Non una parola di troppo, non un sospiro fuori posto. Talmente garbato da far coincidere il giorno del suo addio con quello più caciarone di un altro gigante del pallone, forse più talentoso, di certo meno raziocinante.
Rodrigo Sebastian Palacio, detto il Trenza, con la nostra maglia, 167 partite, non ha vinto una competizione, non è entrato mai in Champions (nonostante molti credono ancora che facesse parte della spedizione del Triplete), non si è mai piazzato sopra il quarto posto e ha realizzato “appena” 56 gol (in attesa di stasera), uno ogni tre gare.
Eppure, nonostante questo, io lo considero come un talento calcistico autentico. Non genio e sregolatezza, né forza o potenza, ma attitudine e indole, mente e intelletto, cervello e inclinazione. Uno che ha sempre saputo vedere il calcio, il suo sviluppo, la sua evoluzione, capendone i movimenti, annusandone l’essenza. Ogni suo spostamento, è stato declinato al gioco, alla conquista degli spazi, agli inserimenti dei compagni, al NOI più che all’IO, all’armonia più che all’estetica. Eleganza e fascino.
Per questo l’ho sempre ammirato. Perché ogni volta che gioca o, meglio, giocava, io ci ho visto la logica di questo sport, la sua esaltazione, il suo trasporto. Perché mi ha sempre ricordato che anche in quest’epoca di muscoli, la ragione ha una sua metrica incantatrice, una bellezza fatta di gesti semplici. E che questa bellezza è e sarà la custode dell’entusiasmo del bambino che è sempre stato in me.
E poco importa se Rodrigo Sebastian Palacio, detto il Trenza, non è mai stato un predestinato, se la sua dimensione calcistica è stata più brezza che tempesta, se le sue vittorie si sono fermate agli anni del Boca, quelli accanto a “El Loco” Martin Palermo (2 edizioni della Recopa Sudamericana, 3 scudetti, due di Apertura e uno di Clausura, e 1 Coppa Libertadores), se la fortuna gli ha voltato le spalle in occasione della finale dei Mondiali del Brasile, persi con la Germania. Non importa e non mi importa, perché ci sono carriere che si misurano a trofei, altre per il ricordo che lasci.
E quello che conservo di Rodrigo Sebastian Palacio, detto il Trenza, è quello di un giocatore che non è mai stato “disperatamente convinto di aver capito già tutto della vita, di cosa è più importante a questo mondo, degli altri e di sé” ma di rimanere alla continua ricerca dell’essenza, fonte di sostanza. Il suo modo di giocare ha sempre conservato, razziando Vittorio Sermonti, “un coriandolo di ragazzità” che ne ha fatto, ai miei occhi, un giocatore diverso e migliore.
Di Rodrigo Sebastian Palacio, detto il Trenza, ci sono stati gol magnifici ed esaltanti, il tacco nel derby del 2013 è stato sublime. Per un attaccante è naturale. Ma io voglio ricordarlo mentre si mette la maglia rossa del portiere contro il Verona in Coppa Italia 2012, sostituendo un infortunato Castellazzi a dieci minuti dalla fine (vincemmo 2 a 0). NOI invece di IO. Ecco quello che ci lascia.
Rodrigo Sebastian Palacio, detto il Trenza, se ne va in punta di piedi. Come era entrato e come lo ricorderemo.
Ciao amico mio, l’eterno bambino che è in me ti ringrazia.
Sono perfettamente d’accordo, lo ritengo un grande giocatore ed un grande uomo, un grande nerazzuro. Grazie, anche il bambino che è in me lo ringrazia dal profondo del cuore. Di questi giocatori abbiamo bisogno, non di selfisti ed epici.