La settimana prima di Natale è quella del “Se non ci vediamo tanti auguri!“. Da oggi in poi questa frase è valida, più o meno a tutte le latitudini. A proposito di latitudini, i nostri eroi (ma sì chiamiamoli ancora così, c’è sempre bisogno di fanciullezza nel pallone) sono destinati a lunghi viaggi. Natale al caldo, tanto asado e un po’ di relax. In realtà non ci sarebbe, e non c’è, nulla di male. Non mi viene in mente un altro lavoro nel quale il divertimento venga considerato alla stregua di un lusso e debba essere necessariamente accompagnato da una performance vincente. Non vale solo per il Natale, sia chiaro. Nell’immaginario popolare – che brutta parola “popolare”, usiamo “collettivo“, un calciatore che perde una partita o va male in campionato dovrebbe restare chiuso in casa e nei limiti del possibile palesare la sua tristezza.
È una regola non scritta del calcio, per lo più del nostro calcio: se io tifoso sono triste perché ho perso, tu giocatore devi essere triste come me, non importa che tu abbia dato il massimo, non ti devi divertire, non devi sorridere, non devi farti selfie (Do you know Brozovic?) e in generale devi rinunciare, in cambio di un lauto stipendio – sia messo agli atti – ad essere quello che sei: un ragazzo tra i venti e i trent’anni. A Natale, quando siamo tutti più buoni (dove di preciso? E in quali giorni?), questa teoria tocca vette altissime di esasperazione. Una volta il Milan perse in casa contro l’Udinese l’ultima partita del girone di andata e Galliani disse che dall’anno dopo avrebbe proibito ai propri giocatori di arrivare allo stadio con le valige pronte per le vacanze.
La teoria, nemmeno troppo sbagliata, è quella per cui “i giocatori sono già mentalmente sull’aereo” e la partita che li separa dal loro paese, dalla picanha, dal mojito e dal bacio della mamma, è poco più che una formalità. Per fortuna noi non abbiamo questo problema: i nostri eroi non ci sono mai stati, o ci sono stati solo a tratti, per cui non ci sale più di tanto il sangue al cervello al pensiero di vederli partire per un po’, e credo che non ne sentiremo la loro mancanza in questi giorni. Chissà cosa farà durante le vacanze, ad esempio, Gabigol, certamente qualcosa di più costruttivo di quello che ha fatto in questi mesi a Milano: giocare alla Playstation e riscaldarsi invano.
Sempre secondo la teoria del “cazzo ridi che non c’è nulla da festeggiare?” sarebbe stata cosa gradita rendere più low profile la cena di Natale. Certo, l’immagine della società è importate, è ci rendiamo conto che il nerazzurro è più elegante del rossonero, per non parlare del giallorosso (mi sono sempre chiesto come si faccia a fare delle cravatte giallorosse eleganti), eppure per una volta non sarebbe stata una cattiva idea organizzare una festa con meno sfarzo, meno orpelli, pur mantenendo alto il livello dei sorrisi, sempre per non cadere nel tranello di cui sopra. Capiamo gli sponsor, siamo solidali con tutti, ma avremmo preferito vedere i nostri eroi vestiti con la divisa sociale, semmai con una tuta, piuttosto che liberi di esprimere la loro discutibile creatività in ardite combinazioni di look.
È vero, ultimamente ci infastidiamo con poco, e di questo chiediamo venia. Ci infastidisce la pelliccia di Wanda, la cravatta di Banega, i baffi di Buffon anche se non ci riguardano, la sua compagna che va alle feste della Juve, perdoniamo a stento il gilet di Brozo giusto perché viene da una doppietta, e poi gli abbiamo già fatto pesare i selfie di settembre. Quelli per i quali “fa bene de Boer“, dopo la vittoria contro la Juve, “che errore de Boer“, ora che Brozovic è tornato ad essere fondamentale (stesso giornale).
Però possiamo assicurare che non siamo poi tifosi così intransigenti, che ai nostri eroi, anzi ai nostri ragazzi, abbiamo sempre dato tutta la comprensione del mondo, perché un tifoso dovrebbe giudicare solo l’impegno, mai i risultati. Gli scarsissimi risultati. Questo marketing della cena di Natale un po’ ci ammoscia, per il semplice motivo che si può fare marketing anche con la tuta dell’Inter o magari promuovendo altre iniziative che non dirò per evitare di passare per il moralizzatore di turno. E sinceramente l’unica morale che mi sento di fare è quella sulla cravatta di Banega. E no, non si può.
meglio commentare sulla cravatta piuttosto che sulla moglie di Banega, come ha fatto uno sprovveduto su quella di Medel ….#ricomponiamoci … è calcio non è vita…
Ci mancherebbe! Anzi, troviamo il commento sulle compagne una caduta di stile che non ci contraddistingue.