Invecchiamo. Alcuni di noi portano i figli allo stadio da anni, altri stanno per iniziare. Siamo più composti, meno sguaiati e quando l’Inter segna cerchiamo di non travolgere donne e bambini. Magari a volte si fatica, come martedì al gol di Vecino, ma in genere riusciamo a mantenere un comportamento decoroso.
Ecco, martedì.
C’era un bimbo con noi. Sette anni, la seconda maglia indossata con orgoglio, un bellissimo bambino emozionato. Lo era prima della partita, non sono riuscito a rivederlo subito dopo l’uragano di gioia perché era a qualche fila da noi. Suo padre è laziale, ci siamo sentiti mercoledì mattina e mi ha raccontato di aver parlato con il suo piccolo interista mentre uscivano dallo stadio e di avergli spiegato che quella partita, quell’esplosione di gioia incontenibile, quegli abbracci e quel rumore spaventoso eppure pieno di armonia li ricorderà a lungo, rimarrano per sempre nella sua memoria di tifoso.
Non ricorderà di aver assistito alla prima partita del primo turno del girone eliminatorio di Champions League e nemmeno ricorderà l’ordine dei marcatori, o forse sì (la memoria selettiva dei bambini è prodigiosa).
Da due giorni leggo scemenze inenarrabili su come e perché Daniele Adani e Riccardo Trevisani avrebbero dovuto dosare le emozioni e contenersi nell’esultanza, in nome di una professionalità e di una deontologia mobile, da utilizzare come ulteriore strumento di tifo all’occorrenza. Secondo l’accusa hanno urlato troppo, quindi sono interisti, quindi non sono stati professionali, tantomeno se commisuriamo l’intensità del commento all’occasione: una partita di girone di Champions League.
Ero allo stadio, a San Siro.
Gli ultimi dieci minuti di una partita comunque tesa e snervante sono stati qualcosa di folle, un frullatore di emozioni e sentimenti di quelli che solo il Meazza può regalare. Quando 70000 persone si ritrovano sulla stessa frequenza, all’improvviso il suono dello stadio cambia e succede qualcosa di magico. Può trattarsi di una normalissima partita di campionato (Inter – Sampdoria 3 a 2), o della semifinale di Champions (la rimonta con il Barcellona), ma quando succede è difficile trovare una spiegazione logica al contagio dell’euforia.
Il concetto filosofico di Pazza Inter sta lì, non nei risultati sul campo e nell’altalena di umiliazioni e resurrezione. La follia è di chi sta seduto a guardare e trasmette ai giocatori i suoi stati d’animo. C’è un nesso di causalità tra la nevrosi del tifoso interista e i risultati sul campo, San Siro può essere lo stadio migliore o il peggiore del mondo, senza alcun preavviso. È sempre stato così, sarà sempre così.
Non posseggo apparecchi per la misurazione dei decibel, eppure sono abbastanza sicuro che dal calcio d’angolo al gol, in quei dieci secondi il volume non sia mai sceso, che l’esultanza sia stata un continuum. Adani e Trevisani erano lì. Il loro lavoro è raccontare le partite, conoscere le squadre, gli schemi e gli uomini. Il loro lavoro è anche quello di raccontare le emozioni e solo i migliori lo sanno fare. L’esultanza sguaiata, scomposta, euforica di San Siro è solo entrata nei loro microfoni, hanno testimoniato quello che stava succedendo lì. Esagerando? Certo, che poi è lo stesso motivo per cui a distanza di tre giorni ho un ginocchio acciaccato e sono quasi senza voce.
Esiste un misuratore, un filtro emozionale da applicare alle partite, un modo di valutare quando sia opportuno sbracare ed essere felici e quando invece si debba esultare in silenzio, composti, al limite sorridendo? Non lo so, non è interessante e credo che se esistesse non vorrei saperne mezza. Di certo il figlio del mio amico non l’ha applicato, ha solo lasciato che il flusso lo portasse e ha costruito un pezzo della sua memoria. Per ricordare e un giorno raccontare. Questo facciamo, a questo serviamo, il calcio non è nostro. Siamo sia protagonisti che testimoni di un rito collettivo, meraviglioso o drammatico, trionfale o grottesco. Partecipiamo, lo facciamo nostro e lo immagazziniamo per elaborarlo e un giorno raccontarlo.
Ai miei figli non parlo e non parlerò di quanti punti avesse la Sampdoria il giorno che venne a San Siro, racconterò piuttosto il sibilo del tiro di Recoba, di quel rasoterra perfetto che nella mia fantasia ha un rumore preciso, che non ho sentito ma ho sentito. Glielo racconterò e metterò quel gol alla pari della seconda finta di Milito a Madrid, perché il livello di intensità della mia felicità era pari, al di là di ogni considerazione sulla lucidità immediatamente successiva e sul fatto che in un caso mi giocavo tutto e nell’altro niente.
Si vive per il momento, si costruiscono memorie. Per questo motivo centinaia di migliaia di noi ricorderanno Adani che urla cose magiche e misteriose e Trevisani che perde la voce e in quel momento saremo felici. Per questo motivo il figlio del mio amico ricorderà l’abbraccio forte di suo padre e tutte quelle voci rotte dall’emozione e non certo i ragionamenti successivi su media inglese e possibilità di qualificazione.
Perché questo siamo, perché questo rende speciale ogni squadra ma forse un po’ più speciali noi interisti, neoromantici e capaci di costruire, tramandare e raccontare una mitologia del bello e delle emozioni, anche se sembrano emozioni da poco, piccole vittorie e momenti di non trascurabile felicità.
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Sei in: Il Nero & L'Azzurro || Editoriale || Costruire la Memoria (o anche del perché non esistono piccole vittorie ma solo vittorie)
Hai reso alla perfezione l’essere tifoso e di una tipologia più unica che rara, il tifoso nerazzurro. Tifo Inter da circa 60 anni e, come si può immaginare, ho accumulato tanta di quella memoria da occupare le mie notti di eterno insonne. eppure, voi potrete capirmi, non c’è niente come il risveglio notturno che ti fa riassaporare la vittoria di poche prima o, al contrario, la rabbia, l’angoscia (per dignità non userò il termine disperazione) di chi sa di aver gettato al vento l’ennesima occasione di vittoria. Mi manca l’emozione collettiva, comunitaria dello stadio in quanto, data l’enorme distanza (scrivo dalla Sicilia) solo occasionalmente mi è data l’occasione di seguire la squadra allo stadio, sia a S.Siro che fuori casa. Spero di potermi ritagliare qualche occasione da vivere insieme al popolo nerazzurro. Grazie per aver ridato corpo e vita alle emozioni e ai ricordi che covano, come brace che mai si spegne, nel mio animo nerazzurro.
quando leggo cose così, son veramente contento ed orgoglioso di essere interista. tutti voi del “il nero e l’azzurro” riuscite a trasmettere sensazioni di appartenenza estremamente positive. buona fortuna.
Bellissimo post Michele.
Sono proprio quelle emozioni che tu hai così ben descritto che mi fanno “vivere” ogni partita che guardo della mia amata Inter.
Nel bene e nel male.
Forza inter, sempre.
Nient’altro da aggiungere… io c’ero ed è questo che siamo!