Un duro. Che duri. Sperando che “qualcosa dalla sfera esca fuori”

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Ascoltare Luciano Spalletti da Certaldo in una qualsiasi conferenza stampa, come quella di presentazione, è come immergersi nella lettura dell’Ulisse di James Joyce (per chi lo ha amato venerdì 16 è il Bloomsday). Stesso flusso di coscienza ininterrotto, stessa assenza di punteggiatura, medesimi salti logici, cambi di soggetto, evoluzioni mentali e un avviluppato processo cognitivo dell’io narrante.

Ora, se Luciano Spalletti da Certaldo, patria di Boccaccio, non ha certo una dialettica da romanzo moderno – anche se nel suo modo sconclusionato di comunicare gli va anche riconosciuta una certa epica (“uomini forti destini forti, uomini deboli destini deboli”) – se non è un comunicatore e non lo sarà mai, se dovremmo abituarci alle sfumature, ai rimandi, alle allusioni (“spero che qualcosa dalla sfera esca fuori”), se, in definitiva, spesso ha la stessa prosa espositiva dei Baci Perugina (“mi identifico in ciò che amo e amo in ciò in cui mi identifico”), di certo è uno che il suo mestiere lo conosce in profondità.

Ed è, sbilanciandomi, l’uomo giusto per noi.

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1) “Mezzo Trap e mezzo Zeman”

La prima ragione è banale: Spalletti è capace.

Nel 1997 a Sovigliana, frazione di Vinci, patria di Leonardo, dove Spalletti è cresciuto, mentre l’Empoli correva in classifica, i suoi concittadini tappezzarono via Palmiro Togliatti con manifesti azzurri dove era scritto “Sacchi più Zeman uguale Spalletti”.

Eppure Luciano Spalletti da Certaldo non è né l’uno né l’altro (lui rispose: “Mi sento più mezzo Trap e mezzo Zeman”).

Da allenatore – disse Mimmo Ferretti – “non ha i paraocchi, sul piano tattico: anzi, prende un po’ qui e un po’ là da tutti. C’è chi lo definisce uno zemaniano pentito, ad esempio. Due sono, al riguardo, le cose certe: il boemo andò a studiarlo a Empoli; il boemo è stato il suo primo avversario nella massima serie. In realtà, Spalletti mischia, ricicla, adatta, inventa. E ogni anno propone qualcosa di nuovo. Inedito magari no; nuovo sì”.

È uno che fa giocare bene tutte le sue squadre con quello che ha.

È stato Spalletti che ha regalato a Totti una nuova giovinezza inventandolo prima punta, prima di esserne offuscato dall’imponenza dell’ombra del suo monumento. Ed è stato sempre Luciano a fornire un nuovo senso a Ninja de Roma, a Florenzi, a rivitalizzare Dzeko, a credere in Salah (tanto per rimanere alle ultime esperienze).

Nell’ambiente del calcio, poi, viene considerato un maniaco. Tra campo e computer spende almeno sedici ore. In questo momento di lui abbiamo bisogno come il pane.

Proprio per questa sue capacità non mi aspetto grandi arrivi. Ci saranno (in difesa, un mediano, forse un incursore), ma nessun grandissimo colpo (pronto ad essere smentito, naturalmente). In ogni caso “nessun acquisto deve essere sbagliato”, ha fatto sapere Luciano. Che poi, andando a scorrere il nostro recente passato, sarebbe una novità assoluta.

Il modulo che ha intravisto, per ora, è il 4-2-3-1, che noi abbiamo già abbozzato con risultati alterni, ma che è diventato un suo marchio di fabbrica a Roma. Sembra anche che abbia le idee chiare anche su alcuni giocatori. Su Joao Mario, ad esempio, una pedina che andrebbe spostata più avanti (ammesso che giochi), su Icardi capitano, uomo d’area come pochi, ma da trasformare in leader, su Perisic, che se sì meglio, ma se no ciccia.

Anche la formula che ha proposto in conferenza stampa non è sofisticata: gioco, spogliatoio, coesione, corsa. Che poi è stato sempre il suo modo di vedere le cose.

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2) «A volte sento dire: io nel calcio non mi diverto più. E penso: paragonato a cosa?».

Luciano Spalletti da Certaldo, ma cresciuto a Sovignana a due passi da Vinci paese di Leonardo, è l’allenatore giusto per noi perché come ricorda Luca Valdisseri «è l’ideale per un calciatore che si vuole mettere in discussione, il peggiore per un calciatore che si sente già arrivato. Tutto ruota intorno a una convinzione e a un concetto. Il primo: cercare la qualità. Il secondo: arrivarci con l’applicazione».

La sua vita è stata sempre così. Lavoro, applicazione, merito.

Figlio di un guardiacaccia poi magazziniere in una vetreria, appassionato di vini, padre di tre figli, Luciano Spalletti ha giocato nelle giovanili della Fiorentina, poi Cuoiopelli, Castelfiorentino dilettanti, Entella Chiavari, Spezia, Viareggio, Empoli in C1. «Ero un centrocampista, diciamo un numero otto. Un anno ho segnato 11 gol, nove però su rigore. Non di grande qualità, diciamolo, ma spirito di sacrificio quello sì».

Uno che dalla carriera ha ricevuto sempre meno di quello che gli spettava.
A Roma nel biennio 2007 e 2008 si è portato a casa una Coppa Italia e una Supercoppa italiana, arrivando due volte ai quarti di finale di Champions League, e praticando un calcio spettacolare. Con lo Zenit San Pietroburgo gli è andata meglio con due campionati, una Coppa di Russia e una Supercoppa di Russia in cinque anni.

Ma vincere in Russia è come fare un solitario a carte. Non c’è piacere, non c’è ricordo.

Per questo lui ha bisogno di noi e noi abbiamo bisogno di lui. Abbiamo bisogno della sua fame, del suo impegno, della sua caparbietà, della sua voglia di emergere, del suo spirito di rivalsa. E, perché no, dei suoi modi bruschi.

“Chi non dà tutto, non dà niente” ha ricordato citando Helenio Herrera.

Abbiamo bisogno di un duro. Che duri. Sarebbe l’allenatore coi fiocchi.

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