Credo che l’Inter sia uno stato dell’animo. Devi avercela dentro, mica si sceglie. Almeno nel mio caso è stato così. Avevo sette anni e mio padre, appassionato di calcio, mi portò alla Standa di Bari per comprarmi la prima maglietta da calcio. All’epoca andavano quelle maglie in acrilico, aderenti e soffocanti, quelle con le quali ti ritraggono in una Polaroid. Tu, un pallone sgonfio, un taglio di capelli discutibile, la lana e un pantaloncino a fior di culo. Poi c’è sempre un calzettone fuori luogo in queste storie, ma poco importa. Avevo sentito parlare di Platini, all’epoca andava molto in voga il suo mito, e quello di una squadra per la quale vincere non era importante, ma l’unica cosa che contava.
Per me non è mai stato così. Vincere era importante, ma anche il modo con il quale si vinceva lo era. E quando mio padre, giocando a scopa, non prendeva il settebello per concedermi gioco e partita, io mi offendevo e me ne andavo. Ma all’epoca non ero capace di distinguere tali sfumature e così gli chiesi di comprarmi la maglia della Juventus. Alla Standa non c’era, e lui mi mise di fronte ad una scelta ben precisa: Milan o Inter. Non ero abbastanza informato, non sapevo nemmeno chi ci giocava nell’Inter. Avevo sentito parlare di Rummenigge, ma lo storytelling di mio padre prevalse: “Io tengo al Milan, e tuo fratello Alfonso anche”. “E Sergio?” gli chiesi per completezza di informazioni. “Sergio è nato a Bergamo, tifa per l’Atalanta”. Fu allora che decisi che io avrei tifato per il Bari, ma mi feci comprare quella maglia del Milan. Come mio padre e mio fratello, avrei simpatizzato per i rossoneri.
Il tempo di indossare la maglia, e fare un giro in cortile. Troppo stretta, quei colori non mi piacevano, e io mi sentivo inadatto ad una fotografia da archiviare. La tolsi prima che mio padre arrivasse con la Polaroid per la foto che mi avrebbe condannato per sempre. Feci un po’ come quei signori che nel 1908, al ristorante l’orologio decisero di dare vita ad un progetto meraviglioso, scissionista, visionario. Il mio scisma era familiare, confessai a mio padre che con il Milan non c’entravo nulla, e gli chiesi di portarmi per l’ultima volta alla Standa a cambiare la maglietta. Quando toccai, e poi indossai la maglia dell’Inter mi sentii subito a mio agio. Come se quei colori mi stessero aspettando. Non c’erano idoli, e per fortuna non c’erano nomi da scrivere sulle spalle, altrimenti temo che avrei dovuto scegliere Vincenzo Scifo. Ma poi arrivarono i tedeschi, Aldo Serena, Nicola Berti, lo scudetto dei record, e le prime rivincite in famiglia.
Durò poco, ma credo di aver accumulato tanta di quella pazienza, e orgoglio, da poterci sopravvivere due vite. Il 5 maggio, la semifinale beffa con il Milan e troppe altre notti insonni. In compenso ho vissuto la notte di Barcellona e quella di Madrid, nell’anno che vale dieci anni delle vite sportive degli altri. L’Inter è uno stato dell’animo. l’Inter ce l’hai dentro, perché a fondarla è stata un gruppo di artisti, intellettuali, studenti e stranieri, e in una di queste categorie ci devi stare – per merito o per aspirazione – per poterla portare addosso.
Mi piacevano i colori, mi piaceva la storia, la voce di Sandro Ciotti quando alla radio diceva “L’Internazionale“. Ci ho provato a farne a meno. Perché il mio amore per il Bari, la squadra della mia città, è tale che ad un certo punto ti chiedi: “Ma perché mai dovrei tifare per due squadre, e perché per una del nord?”. Dalle mie parti è molto sentito il tema del “doppiofedismo“, ed è difficile conviverci, finché non te ne fai una ragione. E capisci che l’Inter è una squadra dove l’unica bandiera che conta è quella del talento, come dicevano i fondatori, che è una storia di quelle che vorresti raccontare in continuazione, e in fondo è per questo che siamo qui. Per raccontare.
Per stringerci la mano e farci gli auguri, ricordandoci di come siamo diventati interisti, e di quel 9 marzo del 1908. Perché nessuno può contare su una fondazione così leggendaria, e su un manifesto così bello: “Nascerà qui al ristorante L’orologio, ritrovo di artisti, e sarà per sempre una squadra di grande talento. Questa notte splendida darà i colori al nostro stemma: il nero e l’azzurro sullo sfondo d’oro delle stelle. Si chiamerà Internazionale, perché noi siamo fratelli del mondo“. Nove marzo mille novecento otto è il nome del nostro album, della nostra canzone, del nostro romanzo, del tema che avrei voluto consegnare il giorno della maturità.
Adesso raccontami di come sei diventato interista tu, fratello.
Mi è piaciuta un sacco la tua storia… ed in comune abbiamo che i colori delcielo e della notte hanno scelto noi… e non viceversa…. Beh, anche a me il nero e l’azzurro sono piombati addosso di loro spontanea volontà…
Sono di Genova e le persone “normali” tengono per Genoa o Doria… io no…
avevo, credo, 6 o 7 anni… sono andato allo stadio con mio padre (interista dell’Oltrepò) non sapendo bene per chi tenere e la samp mi stava pure simpatica…entrano in campo le squadre, vedo quella magllia… e lì scocca la scintilla… il nero e l’azzurro sarebbero stati per sempre i miei colori… ormai sono passati 40 anni. 🙂
Amala!
Sono diventato interista perchè non poteva essere altrimenti. Perchè mio papà mi diceva che il rosso e il nero rappresentavano il diavolo e invece l’azzurro era il colore del cielo e in cielo ci sono gli angioletti. Avevo 4 anni, mio papà iniziò a lavorare prestissimo alla mia formazione.
Il momento esatto però credo sia stato quando mio papà mi comunicò l’acquisto di Rumenigge, “Bobo abbiamo comprato Rumenigge!!!” mi disse con una luce negli occhi che rividi solo quando, anni dopo, gli dissi “abbiamo preso Ronaldo!!”.
Io non sapevo chi fosse Rumenigge ma mio papà per merito suo era felice e se lui era felice io ero felice. E interista.
Non lo so neanche come ci sono diventato. Mio padre dice che fu per via di mio zio, unico interista della famiglia ma il più giovane degli zii e quindi sempre più volentieri noi piccoli stavamo con lui che con altri.
Per il resto il primo ricordo netto è l’album delle figurine Panini – che ho ancora – di Monaco ’74 e io che penso che Facchetti e Mazzola (e Giggirrivva) sono i migliori di tutti, perché ovviamente interisti.
Se dovessi dire come ci sono diventato basandomi su quel che so dovrei rispondere che sono nato interista, e fortunatamente morirò interista.
Perchè mio padre, Interista dai tempi del mago Herrera, mi descrisse l’Inter come la squadra dei Buoni: quelli che, pur di poter giocare con i Fratelli da tutto il mondo, andarono via per loro scelta dalla loro società.
Come si fa a non amare questa Storia?
Non riesco a tifare per i buoni nei Film, ma nel calcio, sì. Noi siamo i Buoni.
(Di Bari anch’io, ed ero allo stadio in quella sera di Dicembre del ’99… I due gol più belli mai visti dal vivo).
Siciliano di padre juventino e madre milanista, senza alcun interista tra i parenti entro il sesto grado, ancora fatico a rendermi conto di come la fortuna mi abbia potuto far diventare interista. Dev’essere stato in terza elementare, anno scolastico 1972-73: una mia compagna di scuola di nome Alessandra mi regalò una foto di Mazzola, una di quelle foto che si usavano allora, stampate sul cartone e poi colorate, ché nascevano in bianco e nero. C’era il Baffo e sotto la scritta: “Mazzola, nei tuoi piedi il pallone vola!”. Mio padre sarcasticamente aggiunse: “Sì, agli altri!”, alludendo agli avversari, ma io non me ne diedi per inteso e appesi la foto al capezzale del mio letto con una puntina da disegno. Da allora sono interista. Non so se Alessandra se ne ricorda ancora, non ci siamo più visti dalla fine di quell’anno scolastico perché cambiai città e scuola. Nemmeno posso dire di essere diventato interista per amore, perché in realtà ero innamorato (segretamente, va da sé) della sua amica Adele, non di lei. Ma insomma, è andata così.
Mio padre negli anni ’60 emigrò per un paio d’anni a Milano, ritornando con la fede per la squadra giusta (anzi direi l’unica) di Milano. Fede che trasmise anche ai suoi fratelli.
Penso di essere nato interista anch’io, il primo ricordo che ho è di un’operazione che ho dovuto fare a Bologna e mio padre che mi porta a vedere Bologna-Inter nel ’72 circa. Perdemmo 1-0, all’uscita Mazzola era così incazzato che non volle firmarmi l’autografo su una cartolina dell’Inter. Me lo fece Bertini e ancora la conservo insieme ad un pupazzo di Mazzola in completo nerazzurro.
Da allora in famiglia siamo tutti interisti compresi zii e cugini, ad esclusione di un cugino unica pecora (bianco)nera della famiglia.
Inutile dire che anche i miei figli sono interisti, con mia figlia che proprio ieri a San Siro è riuscita a farsi fare un autografo con dedica dal Muro.