Com’è che ci siamo arrivati a volerci così tanto male? (missiva a Joao Mario)

di Davide Franzini

Avevi uno zainetto a quadri e la tua ragazza al fianco. Mentre agli arrivi internazionali della Malpensa la folla delirante sommergeva Gabigol in un festival di esuberanza tu atterravi a Linate, a due passi dall’Idroscalo, a dieci minuti di macchina dal vecchio Birrificio Lambrate; avanzavi sereno con la sommessa determinazione di un bravo scolaro in vacanza studio, la tua naturale eleganza ad ammaliare i nostri sensi ottusi dalla canicola in quel torrido venerdì di agosto consacrato ai sogni ad occhi aperti.

Sapevamo poco di te: ricordavamo appena la finale degli Europei, quando strappasti il pallone a Pogba in un corpo a corpo mentre noi addentavamo una Diavola con gli amici in pizzeria. E allora abbiamo letto gli articoli di giornale, cercato i tuoi video su youtube, scoperto che più di tutto ti si poteva considerare un giocatore “intelligente”: ci piaceva la concisione nebulosa di quella definizione e ci piaceva sentirci ripeterla. E la ripetevamo agli amici, a noi stessi, a casa e al bar, brandendo lo scudo della tua intelligenza e dei tuoi ventitré anni contro le spade di chi ti accusava di essere strapagato.

Poi ti abbiamo visto in campo. Era la breve estate dell’Inter di Frank de Boer, quando la Juve entrò a San Siro da squadra di marziani e si ritrovò costretta a sparacchiare lungo sul centravanti, quando il loro allenatore se ne andò tra grida di giubilo (nostre) e dichiarazioni di rosico (sue). Ti vedevamo scambiare posizione con gli altri centrocampisti mettendoti sempre al posto migliore, disegnare la linea di passaggio che mancava, accorrere in soccorso al portatore senza sbocco, tenere e lasciare la palla al momento giusto, soppesando accuratamente tempi e spazi sulla bilancia dell’intelligenza che ti avevamo riconosciuto. Ci stavamo invaghendo, e tre giorni dopo ad Empoli ci avresti rapiti definitivamente: vedendo il calcio con un paio di secondi di anticipo sradicasti un pallone inutile dall’oblio, e con un impasto di atletismo e tecnica – il tuo impasto – apparecchiasti il gol del vantaggio con un passaggio in profondità geometrico e semplice e perfetto, la linea di fuga di un quadro rinascimentale.

Innamorati, iniziammo a fantasticare su di te e su quello che saremmo potuti diventare insieme. Erano solo rose: il tuo essere sempre nel punto più utile, la geniale linearità delle giocate, il modo in cui resistevi al corpo a corpo domando la palla coi piedi, l’astuzia di capire gli avversari e anticiparli. Ti vedevamo giocare e pensavamo ad Andrés Iniesta, ma ai nostri occhi eri persino più bello e promettente, come la ragazza che ci piace la sera dopo il primo appuntamento.

Ma l’estate fu breve, arrivarono le tempeste ed il marinaio olandese fu scalzato dal timone. Ti vedemmo barcollare con il resto della ciurma tra i marosi, riassestandoti soltanto tempo dopo sulla trequarti di una barca nuova. Cogliemmo i segni della tua intelligenza multiforme nella facilità con cui ti adattasti a un altro ruolo, ma lo scafo scricchiolava. E alla prima burrasca si sfasciò e fu il naufragio e tu annaspavi tra le onde, solo per riemergere come un’apparizione al caldo mezzogiorno di un derby d’aprile: infondevi spirito all’equipaggio alla deriva trascinando pallone ed avversari tra lampi di tecnica poderosa, in quell’intreccio di incostanza e epifanie che è la vita di noi dell’Inter, che ci ha fatto amare alla follia gente come Stéphane Dalmat. Arrivarono le lance di salvataggio e un nuovo condottiero, e per un momento parve che dovessi diventare l’incursore del suo esercito: una forza solida e compatta di cui saresti stato il provocatore, l’unità veloce e chirurgica e fiammante volta a disunire le linee avversarie con strappi di tecnica e fisico. E lì, cos’è successo?

Ti abbiamo visto giocare sempre meno, perdere l’adrenalina, la concentrazione, più di tutto la voglia; la tua intelligenza è diventata quella di un secchione triste incapace di legare con il resto della classe. Abbiamo sperato in una crisi passeggera ed atteso con trepidazione un derby stavolta freddo e bagnato in cui sicuramente saresti riapparso per regalarci le due ore di ardore di un amore ritrovato. Ma ti abbiamo visto vagabondare svuotato in terre irraggiungibili. Annusando l’aria fredda abbiamo chiuso gli occhi ed evocato i tuoi momenti migliori, ma quando li abbiamo riaperti eri davanti alla caricatura di un portiere, prostrato dopo il fallimento, senza neanche la voglia di imprecare. E allora abbiamo distolto lo sguardo e ci siamo sentiti lamentarci e ci siamo sentiti fischiare. Che cosa ci hai fatto, Joao? Che cosa ti abbiamo fatto noi? Direbbe il cantante, com’è che ci siamo arrivati a volerci così tanto male?

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