di Hendrik_van_der_ Decken
Arrivai in Olanda, per restarci, alla fine di agosto del 2008. Nel periodo di ambientamento, come sempre e per chiunque il più duro e difficile, il calcio e l’Inter mi hanno aiutato tantissimo. Mi hanno aiutato ad avere qualcosa cui pensare e del quale tenere conto nel calendario altrimenti interminabile di serate tutte uguali, aspettando solamente il giorno del volo per tornare dalle mie figlie in Italia. Le partite dell’Inter davano invece un ritmo allo scorrere dei giorni e fornivano l’aspettativa di avere qualcosa da fare, fosse solo quella di vedere i nerazzurri giocare e poi gioire o arrabbiarsi, ma comunque sentirsi vivi.
Quando conosci persone di altri paesi l’argomento più facile e veloce è la lingua, poi il cibo, infine il calcio, per chi lo segue. Con gli olandesi fu il calcio, subito. Ma con avvertenza preliminare non tanto simpatica: “Qui siamo tutti milanisti, sai com’è… van Basten, Gullit, Rijkaard…”
“Beh, insomma, ma loro hanno preso anche ‘sóle’ clamorose da voi come Bogarde, Reiziger, Kluivert…”
“Ma il calcio italiano noi lo conosciamo bene proprio perchè di olandesi il Milan ne ha sempre avuti. E ancora c’è Seedorf, e Stam se n’è andato da poco… Se sei dell’Inter, insomma, Bergkamp da voi non ha funzionato ed è stato l’unico posto dove ha avuto problemi”.
“Ma ha vinto la coppa Uefa quell’anno! Porc…”
“Van der Meyde poco e niente… Seedorf da voi è rimasto poco e non ha fatto nulla: non avete un gran feeling con noi”.
“Eccheccazz… ma come niente! I due gol da centottanta metri alla Juve? E poi almeno citatemi Jonk, il mio idolo, maledetti! E Aaron Winter? Dove lo mettete Winter, dannati cannaroli?”
“Ah, già, Winter ha giocato in Italia, è vero. Ma non era della Lazio? Non ricordavo che avesse giocato anche nell’Inter”.
Insomma, il calcio era un argomento su cui contare ma di Inter si poteva parlare davvero poco. Ibra era l’unico argomento che interessasse loro in qualche modo, per via dei trascorsi all’Ajax (nessuno di loro nominava Chivu a meno che non lo citassi io, mentre Maxwell era già un pochino meglio nella loro considerazione).
E poi, Wesley Sneijder. Nato a Utrecht, sangue “Ajaced” e centrocampista di puro talento, “costruito” come qui fanno con tutti i centrocampisti sorreggendo il talento pazzesco con una inossidabile tecnica di base: destro, sinistro, centrocampista interno, di fascia e trequartista all’occorrenza. Questo era il background del nostro nuovo fantasista quando sbarcò ad Appiano un giorno di fine agosto, esattamente un anno dopo dal giorno in cui io feci il percorso inverso da Como a Nimega.
Ero calcisticamente innamorato di lui già da tempo ed è sempre stato una delle mie fisse sin dai tempi dell’Ajax. Gli olandesi con cui parlavo di calcio lo erano quanto me: si sorprendevano di come facessi elogi sperticati per uno che giocava nel Real e non era neanche italiano, e secondo me molti di loro pensavano che io fossi un po’ leccaculo, cercando una facile quanto ovvia “captatio benevolentiae” ricoprendo di elogi uno dei loro talenti più brillanti di quel momento. Quando Sneijder arrivò a Milano, a parte la mia totale esaltazione da interista, improvvisamente tutti cominciarono a parlare dei nerazzurri, tutti chiedevano informazioni, tutti vollero sapere cosa faceva Wes in Italia, come stava giocando lui, come giocava la squadra, come andava con i suoi compagni e chi fossero (almeno quelli meno conosciuti all’estero), e poi Mourinho, il campionato, e quelli un po’ più addentro iniziarono addirittura a chiedermi di Arnautovic, fresco di esperienza al Twente, figurarsi.
Ed ecco che l’onda cominciò a montare e prese sempre di più tinte nerazzurre: i giornali riportavano sempre più trafiletti sull’Inter, i trafiletti spesso diventavano articoli, gli articoli servizi televisivi, e l’Inter fu scelta sempre più spesso insieme al Milan come partita della serie A da trasmettere dalla pay-per-view olandese. Il negozio di articoli di calcio del centro espose una sola maglia nella sua piccola vetrina: quella dell’Inter. Non solo quella nerazzurra, ma le faceva ruotare alternandola con il completo da trasferta (persino quella rossa rimase in bella vista per mesi), e sullo sfondo un bel poster gigante di Sneijder con la maglia arancione della nazionale.
E così fu che quasi tutti quelli intorno a me, a poco a poco, vollero sempre più spesso venire a scambiare qualche battuta in più al mattino, portando il discorso sull’Inter e su Wes; le conversazioni più frequenti sul calcio portarono a conversazioni più frequenti su tutto il resto, e parlare di tutto il resto sfociò con l’avere delle persone con le quali poter avere un contatto più ravvicinato così da conoscerli e farmi conoscere meglio. Da lì in poi, ecco l’essere integrato definitivamente nella rosa della squadra di calcetto, la battuta schietta sugli italiani e la rispostaccia sugli olandesi senza che nessuno avesse paura che l’altro potesse offendersi, come si fa tra amici veri, l’invito a cena a casa che per un olandese è il segno definitivo che da “kennissen”, conoscente, sei diventato un “vriend”, un amico. Ed evento tanto più raro se il “vriend” invitato a cena a casa non è nato tra i tulipani, perché l’amicizia qui è preziosa come da qualsiasi altra parte, ma è concessa con molta parsimonia, com’è giusto che sia.
La storia di Wesley Sneijder all’Inter è nota, i trionfi di entrambi pure. Quando a luglio del 2010 mi presentai nel pub per vedere la finale del mondiale, tutti già seduti con le loro maglie arancioni, i miei amici mi avevano tenuto il posto, e mentre mi avvicinavo alla sedia partì un applauso e un coro: “Wes-ley Wes-ley Sneijder!”, “Campione d’Europa e forse stasera anche campione del mondo!”, e purtroppo per loro quella sera non diventò wereldkampioen insieme ai suoi compagni per pochissimo, se solo Robben avesse trasformato in gol quel suo assist meraviglioso nel secondo tempo. E poi tante pacche sulle spalle, e una birra offerta al volo da uno mai visto prima e un sacco di “Mooie shirtje, man! De beste!”, “maglietta stupenda, amico, la migliore!”.
Ed io, straniero in terra straniera, per la prima volta in due anni mi sentivo davvero parte di qualcosa e non ospite o intruso: e tutto per aver indossato in mezzo a un mare arancione una maglietta nerazzurra col numero 10 sulla schiena e il nome Sneijder sulle spalle, e perché quel piccolo olandese aveva fatto vincere insieme ai suoi compagni una coppa straordinaria, ma che in questo Paese aveva un solo nome e un solo cognome inciso sull’argento sfavillante del trofeo stretto tra le mani dei nostri ragazzi in quella indimenticabile notte madrilena.
Qualche giorno fa, in ufficio, un mio collega mi ha detto ridendo: “ma davvero il Milan vuole Sneijder? Ho letto che ha rilasciato un’intervista bella tosta a un giornale italiano… Chissà come ti brucerebbe se accadesse davvero!”
Ma qualsiasi cosa faccia o decida di fare, io e lui saremmo in ogni caso pari. Perché, caro Wes, tu non lo sai e non lo saprai mai, ma io ti devo un bel po’ di cose. Bedankt voor alles, kerel. E sempre forza Inter.
E se ti piace Wes, non può non piacerti anche Davy Klaassen. E’ uno di quei giocatori che all’Inter prenderei ad occhi chiusi.