Forse siamo noi a pensare male, potrebbe essere solo un equivoco. Magari enorme ma solo un equivoco, qualcosa che la nuova proprietà non ha ancora capito o che semplicemente non era nel manuale di istruzioni. Fosse così, ecco alcuni utili chiarimenti sul calcio italiano e le sue regole, scritte e non.
- La serie A non è l’NFL, l’NBA e nemmeno l’NHL o la MLB. In serie A non si resta per diritto divino e nemmeno per contratto. Arrivare in fondo alla classifica costa la retrocessione, arrivare a metà classifica l’esclusione dalle competizioni europee e una serie di danni economici e d’immagine difficilmente quantificabili. Per avere la certezza di restare nella massima serie e generare l’attenzione di sponsor, media e tifosi è necessario competere anche quando le stagioni volgono al termine senza più obiettivi.
- In serie A non ci sono franchigie ma squadre. Difficile ipotizzare che l’Inter possa trasferirsi a Frosinone o a Gorizia. La squadra gioca a Milano da quando è stata fondata ed è sano che a Milano stiano testa e cuore della società. La proprietà straniera e munifica è un tema esotico e affascinante ma la fascinazione dura poco quando i risultati sono un disastro. L’autogestione è una pessima idea, non avere un amministratore delegato competente delle cose di calcio italiane è un’imprudenza, una leggerezza imperdonabile.
- In Italia, in Serie A non conviene arrivare ultimi. Oltre allo scherno, al danno sportivo (la retrocessione), e a quello economico, c’è un’altra fondamentale differenza rispetto a quegli sport professionistici che abbiamo preso come unica religione, come unico benchmark (così direbbero quelli della nuova dirigenza anglofona): in Italia non ci sono i draft, l’ultimo non accumula alcun vantaggio nell’ordine di scelta semplicemente perché non c’è scelta. Si compra o si pesca dal settore giovanile.
- In Italia non si fa tanking. Tradotto in milanese, non si gioca a ciapa no. una brutta stagione, spesa almeno in parte a perdere partite impossibili da perdere non porta alcun vantaggio in termini sportivi, non si accumulano vantaggi nelle scelte (perché, di nuovo. non ci sono le scelte, non c’è draft).
- Se la società ritiene di dover licenziare il direttore sportivo che ha assemblato un gruppo di giocatori mediocri, potrebbe essere una buona cosa non rinnovargli il contratto per altri 3 anni. Se la stessa società ritiene di dover assumere un supervisore dell’area tecnica in palese conflitto d’interessi con il direttore sportivo di cui sopra, potrebbe essere una buona cosa (di nuovo), non rinnovare il contratto a quest’ultimo per altri 3 anni.
- La comunicazione è un fattore fondamentale, di successo o insuccesso. Delegarla a un manager che non conosce il paese in cui lavora, non conosce la lingua e che, soprattutto, nessuno conosce potrebbe non essere una buona idea.
- I giocatori sono un patrimonio della società. Tanto è stupido lasciare che vengano brutalizzati e minacciati dalle frange più estreme del tifo, quanto è scellerato permettere loro di usare i social come strumenti di autodistruzione e zona franca in cui scrivere e dichiarare qualsiasi idiozia. Il professionismo è anche controllo dei piccoli gesti.
- I tifosi sono un patrimonio della società, proprio come i giocatori. Sono complici, amici, familiari. Poi, e solo poi, sono anche consumatori. Varare una campagna abbonamenti con il rialzo dei prezzi di alcuni settori in un momento in cui la squadra perde indecorosamente è un errore. Farlo quando esiste il luciferino sospetto che qualcuno chieda alla squadra di perdere è una terribile caduta di stile e un brutto messaggio.
- L’Europa League è una coppa dignitosa, bella e importante. È una competizione internazionale. Per una squadra che da sei anni si copre di ridicolo dovrebbe essere un obiettivo e non un ostacolo. La prima cosa da fare per ricominciare a vincere è imparare a vincere. Perdere è o dovrebbe essere un incidente formativo, non la regola per un gruppo senza sussulti e dignità.
- Esonerare 3 allenatori è un segno di debolezza enorme, esonerarli insultandone la dignità professionale non è un gesto di forza e autorità, piuttosto una manifestazione di arroganza e insensibilità, un tentativo di ricondurre tutta la gestione a un puro capriccio padronale. L’esatto opposto di quel che ci serve oggi.
PS Questo piccolo decalogo riguarda la società. Per i giocatori, sui giocatori c’è poco da dire. Come canta uno bravo, celebre e interista: ho perso le parole.
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