Dei milioni e dei tulipani

Ci sono due facce del calcio, una delle quali purtroppo emerge sempre con egemone tracotanza rispetto all’altra.

La prima faccia è quella nota, quella sbraitante, quella che suda insieme ai giornalisti fermi di fronte alle porte del calciomercato. Quella dei procuratori che spariscono, quella dei contratti milionari stracciati, rifiutati, rinnegati, abbracciati, sbandierati. Quella delle maglie baciate, delle maglie sognate da bambini, delle maglie ecosostenibili da presentare, delle maglie con gli sponsor da esaltare. Quella delle volte in cui puoi decidere se scegliere un gelato in Italia o una vagonata di milioni in Arabia, e tu ben sai come sarebbe meglio fare il contrario, ma intanto vedi fior di giocatori andare a scrivere il loro tramonto tra le dune invece che tra le Alpi.

La seconda faccia è silente, timida, discreta. Ma bellissima. Ed è quella di Edwin van der Sar, personaggio mite che sta giocando la sua partita più importante e che Darwin Pastorin così raccontava:

C’è chi ricorda le sue fughe nelle Langhe, tra le zolle trasformate in letteratura da Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, Giovanni Arpino. In terra di vino e tartufi. In atmosfere di magia e giorni sospesi. Edwin, in quei luoghi, in quegli spazi, respirava aria di passato, e sorrideva. Sorrideva per davvero: restituito ai suoi pensieri e ai suoi ripensamenti. E, certo, «alle cose che potevano essere e non sono state» […]. Suonava la chitarra, soprattutto il repertorio di Joe Cocker e leggeva molto, moltissimo: romanzi, saggi, poesie. Gli piaceva sedersi su una panchina e ammirare, tra una pagina e l’altra, il Po. Fu, nelle sue malinconiche stagioni bianconere, un buon portiere, con qualche fragilità. Ed è per questo che mi aveva conquistato. La debolezza è uno scrigno di scrittura, l’imperfezione conforta gli aggettivi. L’errore sublima il ruolo, non lo umilia. Sfiorò lo scudetto, quindi la gloria eterna. Nel suo giardino i tulipani venivano coltivati con amore. Con delicatezza. Edwin van der Sar aveva il cuore nelle mani.

Ed è la stessa faccia, sulle stesse colline, quella di De Vrij che sfiora il pianoforte sulle melodie di Einaudi per cercare qualcosa nel cuore che poi in campo si possa restituire al mondo. E’ la faccia della bellezza, quella che Ranocchia ha costruito ad Assisi come in una rovesciata di commiato. Chissà, forse è addirittura quella stessa armonia che a modo suo Correa cerca di mettere in una grigliata tra amici. E’ l’allenamento di Zanetti nel giorno del suo matrimonio, è il sorriso di Darmian a fine partita, è una storia su Instagram di Bare per salutare quei compagni con cui si è condiviso un bel percorso.

Non saranno le cronache sbraitate e i trending topic di un algoritmo a restituirci questa parte sublime dell’immenso circo che è il Calcio. Ma sta a noi andarle a cercare nell’infinitamente piccolo: chissà mai che non si riesca a farle emergere con un pizzico di forza in più, facendo brillare quella metà del mondo che troppo spesso resta nell’ombra.

Coltiviamo tulipani. Leggiamo un bel libro. Ascoltiamo buona musica. Tutto ciò non ha niente a che fare con il Calcio? Tutt’altro.

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