→ Non sono esattamente un presenzialista ai funerali delle persone famose. Anzi. Tutto quel circo a contorno che si porta appresso l’addio a uno di questi, mi terrorizza. Quelli che applaudono, quelli che restano in agguato con i telefonini in modalità foto, quelli che vogliono esserci perché domani lo andranno a raccontare.
Ma a salutare Giacinto ci sono andato pure io. L’ ho fatto perché era una figurina sull’album dei ricordi di mio papà. L’ ho fatto perché era una brava persona ed era bello sentirsi rappresentati da lui, nella passione verso l’Inter. L’ho fatto perché ci sono cresciuto con il mantra tramandato del “Sarti, Burgnich, Facchetti”. Gianfelice dentro la Chiesa di Sant’Ambrogio aveva citato “Fahrenheit 451”. Ognuno deve lasciarsi qualcosa dietro quando muore, diceva sempre mio nonno, un bimbo o un libro o un quadro o una casa o un muro eretto con le proprie mani o un paio di scarpe cucite da noi.
O un giardino piantato col nostro sudore. Qualche cosa insomma che la nostra mano abbia toccato in modo che la nostra anima abbia dove andare quando moriamo, e quando la gente guarderà l’albero o il fiore che abbiamo piantato noi saremo là. Io a quel funerale sono andato perché Giacinto aveva lasciato dietro di sé, la faccia pulita d’un ragazzo diventato uomo a correre dietro a un pallone. Con quella maglia, con quei colori.
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Sei in: Il Nero & L'Azzurro || Amarcord || 4 settembre 2006
io non c’ero, perché abito lontano, ma c’ero anch’io
Mai andato in 56 anni ai funerali dei personaggi famosi, non sopporto l’odiosa abitudine degli applausi. Per Giacinto ho fatto un’eccezione e ci sono andato. C’è solo un capitano.
Grazie.
A te e soprattutto al Cipe.