Una stagione in un’ora e mezza. Un’ora e mezza voluta, cercata, persa e poi ritrovata. Un’ora e mezza senza fiato. Di amore e di battaglia, di vittoria a tutti i costi. Ricordi sfocati di un 5 maggio lontano, che non avremmo voluto vivere, un 5 che nella matematica degli innamorati viene dopo il 6.
Il 6 maggio 1998.
Il 1998 è l’anno della Francia, che ospita per la seconda volta i Mondiali, di cui la finale di Coppa Uefa è la prova generale. Si gioca al Parco dei Principi, casa del Paris Saint-Germain di Bernard Lama e Patrice Loko, di Raì e David Ginola, che su quell’erba cinque anni prima affondò con un “missile Exocet al cuore” la rotta della propria nazione verso il mondiale USA. Il Paris Saint-Germain di Youri Djorkaeff e Benoit Cauet, che quel 6 maggio vestono la maglia nerazzurra insieme a Ronaldo, che su quell’erba un anno prima vinse la Coppa delle Coppe col Barcellona.
Ma se è l’anno della Francia, la serata è tutta italiana: sono Lazio e Inter le protagoniste della prima finale di Coppa Uefa in gara unica. La Lazio di Cragnotti, proiettata nel futuro e quotatasi in borsa giusto quel giorno, alloggia tra uffici e grattacieli alla Défense; l’Inter di Moratti, nata novant’anni prima in una notte splendida, è in ritiro a Versailles. La vigilia parla del grande duello tra Ronaldo e Nesta, dell’Inter intossicata dallo scontro diretto di Torino, della Lazio che gioca la sua prima finale europea.
Quattro anni prima, a Pasadena, in un’altra vigilia di gala del calcio nazionale, Arrigo Sacchi rivendicava la prima finale mondiale dell’Italia senza libero nè stopper. Eriksson cavalca l’onda e schiera un 4-4-2, difesa in linea a zona, due cavalloni di fascia come Nedved e Fuser, e davanti Mancini e Casiraghi. Gigi Simoni non è un vate e della modernità se ne sbatte, e schiera il libero: Salvatore Fresi, perché Bergomi è infortunato. Ci si aspetta Lazio attiva ed Inter reattiva, ed è più o meno così. I biancocelesti cercano da subito il bandolo della manovra, ma faticano a trovarlo: i quattro difensori restano bloccati in linea, e la palla non riesce a viaggiare perché tutti gli altri sono marcati spietatamente a uomo. L’Inter, da par suo, non vuole fraseggiare e cerca di arrivare ai grandi dell’attacco nel modo più diretto possibile, con i lanci verso Zamorano, i filtranti a Ronaldo e Djorkaeff, le corse palla al piede di Winter. Dopo due minuti Ronaldo ruba il tempo a Nesta che lo butta a terra, dopo cinque minuti segna Zamorano. Tutto come preparato: Simeone riceve palla poco dietro il centrocampo e lancia oltre la difesa laziale, diretto e improvviso. Zamorano prende il tempo a Negro, Nesta non lo vede e il libero non c’è, Zamorano si lascia scorrere il pallone di fianco, dà un occhio a Marchegiani e lo infila chirurgico d’esterno.
Molte analisi hanno visto in questo gol il turning point della gara, che ha permesso all’Inter di difendere e colpire fulminea di rimessa: forse è vero, ma le ferree marcature a uomo dal primo minuto e le dichiarazioni post-partita di Simoni (“volevamo saltare il centrocampo”) raccontano che così avremmo giocato, vantaggio o non vantaggio. E il gol cambia il punteggio ma non il copione: la Lazio non riesce a costruire, e nell’unica occasione in cui disordina le marcature nerazzurre servendo Casiraghi, sopravviene da un tempo anteriore a Pasadena il libero Fresi, che stende il laziale guadagnandosi un giallo d’antan. Ronaldo è spesso ingabbiato dalla zona biancoceleste, ma poco prima della mezz’ora appare, e colpisce con un esterno destro irreale l’incrocio dei pali. Finisce il primo tempo ed è uno a zero, sui cartelloni a bordo campo scorrono le pubblicità della Playstation e Gran Turismo, Bruno Pizzul parla di una partita piacevolissima ed un’Inter temibilissima, con l’abbondanza di superlativi che stonerebbe da qualsiasi voce, ma non dalla sua.
Inizia la ripresa, e la Lazio prova a scompigliare le robotiche marcature a uomo facendo spesso uscire Nesta palla al piede sulla nostra trequarti, ma senza successo. Le telecamere indugiano sui volti della tribuna vip: il busto classico di Giacinto Facchetti, il ghigno sornione di Platini, le sigarette fumate da Dino Zoff. Dopo un quarto d’ora arriva il raddoppio, sull’armonia delle note scritte da Gigi Simoni nel pentagramma della partita: palla gestita da un talentuoso (Ronaldo) che batte una punizione verso la testa magica di Zamorano, Zamorano la mette giù e poi qualcuno arriverà; arriva Zanetti, che con un destro violentissimo infila all’incrocio opposto.
Un’ora di gioco, due a zero. Winter sfiora il terzo, e poi la Lazio ha un sussulto: Nedved crossa dalla sinistra per Mancini, che fin lì ha fatto poco altro che dispensare colpi di tacco a caso, che però si smarca sul secondo palo e da un angolo di tiro impossibile calcia un bel diagonale, su cui Pagliuca fa la sua unica vera parata. E poco dopo l’Inter sfoglia l’ultima pagina del pentagramma: Moriero recupera palla sulla destra e serve Ronaldo che è sul filo del fuorigioco, ma nessuno può fermare Ronaldo lanciato verso la porta nella notte di Parigi, e nessuno lo ferma e lui segna il gol manifesto della serata.
È la rete che chiude la finale, e oggi quasi stupisce che sia stata segnata venti lunghi minuti prima del novantesimo. Venti minuti inutili per il risultato, dentro cui c’è Ronaldo finalmente libero dalla gabbia che scherza mezza Lazio, suscitando calci in campo e il coro Oooh, il Fenomeno sulle tribune; Taribo West che abbassa il grado di inibizione e reagendo su Casiraghi si merita un’espulsione stonata, sul tre a zero; Javier Zanetti che dentro è già un capitano, che quando Almeyda si fa espellere scalciando Ronaldo il ventiquattrenne Javier Zanetti lo soccorre, connazionale, coetaneo, avversario, lo soccorre e lo toglie dalla mischia e lo accompagna fuori dal campo stampandogli un bacio sui capelli.
Finisce la partita e l’Inter è campione e Ronaldo viene eletto man of the match, un po’ per merito e un po’ perché a un mese dai Mondiali è bene che sia così. È il primo trofeo dell’Inter di Massimo Moratti, che ripensa a papà Angelo “al quale in questo momento vorrei rivolgere un pensiero pieno di affetto. Ricordando a tutti che lui ha vinto scudetti e Coppe dei Campioni”: serviranno dodici anni per tradurre quel monito in realtà, perché il padre riviva nel figlio nella notte di Madrid. È la notte più bella di Gigi Simoni, uomo semplice alla guida dell’Inter di Ronaldo; uomo umile che prima della partita dichiara sibillino “La mia soddisfazione più grande è di essere riuscito a gestire un gruppo così variegato senza problemi. Non è stato facile (…) e in principio pochissimi mi davano credito”; che durante la partita ha occhi pieni di lacrime quando il pubblico invoca il suo nome; che dopo la partita si vede finalmente riconosciuta l’oculatezza tattica, e il coraggio di vincere con il quale ha schierato tre punte. Dagli altoparlanti del Parco dei Principi riecheggia Volare, mentre i giocatori corrono a issare la coppa sotto il settore nerazzurro.
Domenica sera, all’Olimpico suoneranno I giardini di marzo, un canto che la Lazio ha fatto proprio ma che parlerà anche di noi. Ci parlerà di amori immensi e di malinconie dolcissime che lasceremo correre, ma solo un attimo, l’attimo che precede il coraggio di vincere.
(A cura di Davide Franzini)
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