Fenomenologia del numero 7

Di Alice Nidasio e Cristiano Carriero

 

La solitudine dei numeri 7. Prima e dopo Luis Figo.

In letteratura, il 7 è un numero carico di significati, così come nel calcio.

Sette sono i Sacramenti, sette sono i peccati capitali, sette sono i giorni impiegati da Dio a generare il mondo. Sette era il numero di George Best, tanto per intenderci, e questo basterebbe a far capire che tipi sono i numeri 7. La nostra storia è diversa da quella del Manchester United: se loro hanno conservato una certa mitizzazione del 7, noi l’abbiamo trattato alla stregua di numero qualunque.

Nel mio immaginario, e forse anche in quello di Giovanni Trapattoni, il numero 7 è ben rappresentato da Alessandro Bianchi, l’essenziale. In quella magnifica filastrocca che iniziava così Zengabergomibrehme il primo dubbio da dilettanti giungeva proprio alla settima riga: Matteoliferrimandorlini. L’ala destra era un giocatore di nicchia. Non aveva particolari soprannomi e aveva il cognome più comune del mondo e dell’ala destra non aveva né il dribbling, né il passo. Il cross sì, ed era uno di quei giocatori capaci di liberarsi del pallone in tempo, prima di finire a dribblare la bandierina del calcio d’angolo come molti suoi colleghi di ruolo facevano all’epoca, facendo impazzire i tifosi e imbestialire gli allenatori. Per questo Trapattoni lo volle fortemente nella sua Inter e quando fece il suo nome a Pellegrini non furono in pochi a sottolineare che il Trap era in vena di scommesse. A Bianchi abbiamo dedicato un pezzo, qualche tempo fa.

Per Alice il principio fu Luis Figo, incontestabile e incontrastata divinità. L’ala più forte della storia del calcio nasce ad Almada nel 1972, cresce nello Sporting Lisbona, sarà Santo al Barcellona e Beato al Real Madrid. Poi deciderà che i proseliti in terra spagnola non bastano e vorrà diffondere il Verbo anche in Italia, a Milano, dal lato Nord dello stadio Meazza. Più dei numeri (140 partite e 11 gol, non pochi ma neanche troppi) conta la classe che ha reso di velluto ogni tocco e con la quale i suoi piedi hanno tracciato parabole da insidiare il Vangelo. Il punto di non ritorno per la storia della  7 in casa Inter coincide con la data del suo ritiro, perché mentre l’avantifigo una massa nebulosa abitata da giocatori come Orlandini, Fresi, Pacheco e Conceiçao, il d.F. (dopo Figo) è nato sotto l’egida della consapevolezza che nessuno (forse) sarebbe stato all’altezza del predecessore.

Ed ecco che, a (tentare di) dimostrare il contrario, l’anno immediatamente successivo, quella maglia se la prende un portoghese come Figo, sponsorizzato da Josè Mourinho e famoso in patria per la trivela (quel gesto tecnico che se osi imbastire al campetto dell’oratorio l’allenatore ti prende a calci dalla panchina): Quaresma. L’aggiunta di dettagli sarebbe un doloroso recupero di ricordi che vanno lasciati dove sono.

Se non altro dopo Ricardo da Lisbona, si è andati leggermente in crescendo con Pazzini prima e con Coutinho poi. *Il primo incontra da subito il favore del popolo nerazzurro. E’, oltre che un attaccante prolifico, un professionista serio e dal profilo sempre basso. Ma chissenefrega: gli occhi degli interisti lo vedranno sempre come l‘autore della doppietta che all’Olimpico spezzò il sogno scudetto della Roma, nel 2009/10. In maglia nerazzurra, nel gennaio 2011, debutto col botto: 2 gol in casa col Palermo e rigore procurato, a sancire la rimonta interista per 3-2. Qualche rete la segna, ma si perderà tra le trame tattiche di Gasperini e Ranieri, finché verrà ceduto al Milan.

Poi il tasto dolente: Coutinho. L’unico che avrebbe potuto rappresentare un continuum con la classe del portoghese, nel 2013 viene ceduto al Liverpool alla cifra di 10 milioni di euro (oggi i Reds ne rifiutano 130 dal Barcellona, roba da analisi). Ma la sua storia in nerazzurro inizia nel 2010: è il 27 agosto, l’Inter sta giocando (perdendo) la Supercoppa Europea e al 79’ fa il suo esordio, subentrando a Wesley Sneijder. Poi la Serie A, un infortunio e il primo gol nel maggio 2011, contro la Fiorentina. La poca brillantezza in campo ne suggerisce il prestito all’Espanyol. Rientra e non convince, si infortuna. Si generano due correnti di pensiero: quella che “E’ troppo fragile” e quella che “I colpi li ha, varrebbe la pena provarci”. Io ricordo ancora uno status scritto su Facebook dopo un suo gol al Catania: “È nato Coutinho”. Niente, solo 4 like e troppe prese in giro. Devo avere lo screenshot da qualche parte.

Dopo di lui, una serie di nomi che non prevedono narrazione: Belfodil, Schelotto, Osvaldo. A parte la soddisfazione, estemporanea, di aver pareggiato un derby proprio con gol di Schelotto. Ma quelle sono reti che diventano storiche quando l’avversario è nettamente più forte di te. A parità di valori è il gol di un numero 7 qualunque, solo un po’ più scarso.

Nel 2015, come ad aspettare l’avvento del nuovo messia a centrocampo, ecco Goffrey Kondogbia, il francese del Monaco “strappato” ai rivali rossoneri e pagato ne complesso 40 milioni di euro. Presentazione in grande stile sul tetto di un noto albergo tra slogan anti Milan e folla infiammata sono stati il preludio a due stagioni deludenti. Inutile raccontare il rapporto con i tifosi perché è iniziato qualche giorno fa, quando è stato ufficializzato il prestito al Valencia.

E oggi? Oggi proprio dal Valencia, in questo scambio di prestiti che sembra portare solo vantaggi, c’è Joao Cancelo, difensore portoghese classe ’94 che il Mestalla ama alla follia. Terzino di spinta con tanta corsa, dribbling e inserimento, che può giocare come ala offensiva. Tutte caratteristiche utili ma marginali. Quelle che contano sono due: ha scelto la 7 ed è portoghese. È’ finito il tempo della solitudine?

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