Come una specie di capriola: amare Oba Oba

Ci sono capriole che non si scordano, ognuno ha le sue. A Madrid, sponda Real, ricordano quelle di Hugo Sanchez. Capriole perfette, da ginnasta. Capriole destinate a suggellare trionfi, a far impazzire un pubblico devoto ai toreri e agli olè. E mica ti puoi permettere di sbagliare una capriola davanti a gente così. Noi siamo diversi. Le nostre capriole sono sbilenche. La nostra stagione, quella in cui è racchiusa la perfezione di 108 anni, è UNA. Poi ci sono quelle di Herrera, è ovvio, e molte altre cose riuscite più o meno bene. Come una capriola di Oba Oba Martins.

Forse è per questo che lo abbiamo adorato da subito. Per quell’esultanza sfrenata, libidinosa, liberatoria, del suo gol più importante: quello che non servì a nulla. Lo abbiamo visto volteggiare, ne abbiamo contato i giri, ci siamo soffermati sulla sua espressione, come se quello fosse il climax di un romanzo che non poteva finire così, con il protagonista che piange, cinque minuti dopo. Se penso a Oba Oba, penso al suo gol contro il Milan nella semifinale di Champions League. A quel momento in cui lo stadio diventa una bolgia, forse la più grande bolgia vista negli ultimi 30 anni dalle parti del Meazza.

Perché nella semifinale contro il Barcellona, quella del 2010, c’è un tifo appassionato e costante. Un tripudio, un’estasi collettiva e un va a quel paese a Balotelli. La devozione per Zanetti e Cambiasso, una standing ovation a Milito, un grazie sincero ad Eto’o, impegnato da terzino. Quella volta, invece, Oba Oba ci aveva risvegliato da un incubo. Forza, che ci sono cinque minuti di fuoco, più il recupero. Oba ci crede. Il capitano ci crede. Toldo, il sornione, ci crede. E ci torna subito in mente la sua espressione dopo aver parato il primo rigore nella semifinale più beffarda di tutti i tempi, quella tra Olanda e Italia. La faccia di chi “probabilmente ha già visto la partita registrata, perché sa già come finirà” (Paolo Condò).

A riportarci sulla terra è l’espressione ieratica di Cuper. Sembra dire “Credetci pure, tanto lo so già come va a finire“. Va a finire che Kallon non alza di due cenitmetri un pallonetto e Abbiati chiude in uscita. Il Milan, un brutto Milan, va a Manchester e vince la coppa. A volte mi resta la consolazione di pensare: “Ma vuoi che non l’avremmo persa contro la Juve quella finale?“. Ma le storie non cambiano. Ci resta un capriola sbilenca e quella voglia di fermare il tempo lì, sul sorrisone di Toldo che chiede allo stadio l’ultimo sforzo. Oba Oba segnerà ancora, ci illuderà di essere l’erede Crespo, l’erede Vieri, persino l’erede di Ronaldo, quando il fenomeno andrà via.

Ci siamo dimenticati per anni il suo rapporto con il pallone, per un motivo molto semplice. Oba correva così veloce che il pallone lo toccava pochissimo, e quando accadeva ci metteva talmente poca grazia che poteva addiruttra succedere qualcosa di buono. L’abbiamo vesto segnare al Milan, procurasi rigori assurdi, segnare al Delle Alpi con Materazzi che per un po’ non gli spaccava tibia e perone nel tentativo di placcarlo in un abbraccio, riaprire sfide impossibili come quella contro la Sampdoria (da 0 a 2 a 3 a 2 nel recupero). Ad un certo punto Oba aveva rinunciato alla capriola perché Zaccheroni gli aveva chiesto di stare più attento, di trattenere gli impulsi e che alla lunga quel gesto gli avrebbe portato problemi alla schiena.

Con il Mancio le cose andarono diversamente. In coppia con Adriano, Oba si divertiva. E aveva ricominciato a fare capriole. Le più belle furono ancora una volta quella contro il Milan, in un derby vinto 3 a 2 al 90′ (grazie Adriano, per aver saltato più in alto di Vieri) e contro la Juventus, in rimonta da 0 – 2 a 2 a 2. È stato forse in quel momento che abbiamo pensato che in un modo o nell’altro Oba non se ne sarebbe andato mai. Che con quei suoi movimenti sgraziati, quel suo dare del lei, forse del voi, al pallone e quella mimica così plateale, il giovane nigeriano sarebbe invecchiato qui, diventando una bandiera. Invece un giorno ci siamo svegliati e lui non c’era più. Bisognava tornare (iniziare?) a vincere, e non c’era più posto per le sue capriole sgraziate.

C’era Ibra, il Giardiniere Cruz, Adriano, un nuovo Crespo. Ci sarebbero stati Eto’o, Milito e Pandev. E ancora Pazzini, Palacio, Cassano e infine Icardi. Nessuno avrebbe più fatto una capriola (a parte Hernanes, uno che è talmente perfetto nel gesto da passare inosservato), in compenso avremmo cominciato a vincere. Ma sapete perché ho amato alla follia Oba Oba? Perché ancora oggi, se fermo il tempo, e penso alle sue esultanze, ai suoi occhi spiritati e alle sue mani che si agitano, ad un ragazzo che non si libera delle sue origini nemmeno alla Scala del calcio, mi viene in mente che in fondo siamo stati felici anche quando non si vinceva un cazzo. Che ci si può divertire, esultare, piangere per la delusione, ma cavolo illudersi, anche nelle stagioni sgangherate. Come un specie di capriola mal riuscita. Come un gol di Oba Oba Martins.

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