Non sempre i ribelli possono cambiare il mondo. Ma mai il mondo potrà cambiare i ribelli.

“la prima cosa che mi dà un grande fastidio è sentir dire che nel calcio non si può più inventare nulla.”

Corrado Orrico

Ogni rivoluzione, si sa, porta con sé una controrivoluzione, una restaurazione…un tentativo, insomma, di riportare indietro le lancette del tempo.

Ma prima che il vento rivoluzionario cominci a soffiare in senso contrario si affacciano alla ribalta della storia tutta una serie di epigoni (dal greco ἐπίγονος, letteralmente «nato dopo»), cioè di tentativi di imitazione, spesso non conformi all’originale.

Il calcio non fa eccezione. Ed ecco quindi che, dopo l’avvento di Arrigo Sacchi, ci furono tutta una serie di suoi discepoli che, con poca o nulla personalità creativa, emersero nel tentativo di imitarlo. Nacque così il sacchismo, termine che ha pian piano assunto valore dispregiativo venendo ad indicare il maldestro tentativo, perpetrato da alcuni emuli, di scopiazzare l’Arrighe e il suo 4-4-2.

In verità, qui non andremo a parlare di uno di uno di questi discepoli ma, al contrario, di uno dei maestri del gioco a zona in Italia, vale a dire un personaggio facente parte di quella schiera di allenatori zonaioli che cercarono, in contemporanea o spesso prima di Sacchi, di fare quello che poi riuscì all’Arrigo nazionale: cambiare la mentalità e il modo di giocare degli Italiani passando dall’italico catenaccio ad una visione più moderna, internazionale del gioco del football…più libera anche, se si accetta l’assioma di Luis Cesar Menotti, per il quale “la zona es libertad”.

Fra questi nomi ci sono alcuni dei maestri del gioco moderno in Italia che non hanno avuto i successi che avrebbero meritato e che, di conseguenza, sono anche finiti presto nel dimenticatoio.

Basti ricordare i vari Corrado Viciani e il suo gioco corto (sul quale è stato scritto un bel libro da Gian Luca Diamanti dal titolo significativo Il Gioco è bello quando è corto), Pippo Marchioro, Luis Vinicio o, ancora, Enrico Catuzzi, uno dei maestri della zona in Italia.

Accanto a queste figure (e mi scuso per averne tralasciate altre…) mi preme ricordare qui, per la sede in cui ci troviamo, un altro dei pionieri della zona in Italia e di un certo modo di vedere il calcio e la vita.

Sto parlando di Corrado Orrico, un toscano particolare, per certi versi atipico come sono coloro i quali nascono e crescono nel nord-ovest della Toscana, là dove si è quasi più Liguri.

Ora il nome di Orrico non è per gli interisti legato a entusiastici ricordi di vittorie e di epopee trionfali. Anzi, le partite che videro il nostro sulla panchina nerazzurra furono appena diciassette: il suo regno infatti, cominciato nell’estate del 1991 si concluse a metà stagione.

Il 19 gennaio 1992 è la data da tramandare i posteri. In quella domenica, dopo una sconfitta per 1-0 subita a Bergamo contro l’Atalanta Orrico fece un gesto che, ancora oggi a distanza di venticinque anni, dà un’idea del carattere e dello spessore del personaggio. Con una mossa davvero inusuale per le nostre latitudini il maestro di Volpara (così lo definì Gianni Brera) diede infatti le dimissioni, come aveva già altre volte, anteponendo la dignità ai soldi.

Fu, quella, una decisione che sancì non soltanto la fine dell’esperienza di Orrico sui Navigli ma che decretò anche l’arrestarsi del processo di modernizzazione tattica dell’Inter (tant’è che al posto del tecnico apuano venne chiamato Luisito Suarez e che, la stagione successiva, la squadra venne affidata a Osvaldo Bagnoli).

Ma riavvolgiamo il nastro dei ricordi. Un breve e infruttuoso assaggio di serie A con l’Udinese all’alba degli anni ’80 (colpa mia. Ero immaturo, avevo un’ottica sbagliata nei confronti delle cose, prendevo di petto tutte le situazioni. E la squadra era pure debole, ma fondamentalmente la colpa è stata mia”), Orrico ha poi proseguito la sua carriera di allenatore peregrinando per la provincia italiana fino ad approdare alla Lucchese dove, fra il 1989 e il 1991, creò un sodalizio capace di sfiorare la massima serie. E l’avrebbe anche centrata stando alle sue stesse parole: “senza infortuni ci saremmo tranquillamente arrivati”.

Un risultato soltanto sfiorato ma sufficiente per balzare agli onori delle cronache in tempi di sacchismo.

Ernesto Pellegrini, presidente della Beneamata, infastidito dai successi dei cugini rossoneri e, perché no, desideroso di dimostrare al collega Silvio Berlusconi di essere anche lui in grado di vincere con colpi di genio, decise di provare a replicare quello che l’allora Cavaliere aveva fatto a Milanello con Sacchi, vale a dire mettere alla guida della propria squadra un allenatore semi-sconosciuto, che si è fatto le ossa in provincia e senza un passato da calciatore alle spalle.

E chi meglio di Corrado Orrico, in auge in quel momento fra gli addetti ai lavori, poteva soddisfare i desiderata di Pellegrini?

Così, come un Maurizio Sarri ante litteram, nell’estate del 1991 Orrico sbarca a Milano, sponda nerazzurra, all’età di cinquantuno anni. A lui, chissà, la Pinetina dovette forse sembrare come la Luna, abituato com’era alla più tranquilla provincia Toscana (luogo dove ha ottenuto i maggiori successi in carriera). Radio, televisioni, tifosi, pressioni…tutto era ingigantito.

Il salto non era facile: passare in un attimo dai vari Roberto Simonetta, Massimo Rastelli, Francesco Monaco a Lothar Matthaus, Jurgen Klinsmann, Nicola Berti e Walter Zenga avrebbe stordito chiunque. Ma non Orrico. Non un allenatore filosofo, abituato a fare di testa propria, convinto delle sue idee innovatrici.

Appena arrivato fa costruire la famosa gabbia, un’avveniristica struttura dove il pallone era sempre il gioco, ideale per “affinare la tecnica, sviluppare i riflessi, velocizzare il gioco, migliorare la condizione fisica”.

Un’idea che Orrico ha mutuato dai ragazzi che giocavano in spiaggia a Livorno. È lì, sulle spiagge toscane, che il maestro di Volpara ebbe l’illuminazione, durante le estati degli anni Sessanta quando il giovane Orrico vede i figli della Livorno operaia giocare in queste costruzioni lungo il mare. Sono le stesse costruzioni in cui giocava nei mesi estivi anche Armando Picchi, quando non era ancora diventato il capitano della Grande Inter morattiana.

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Lì nacque l’idea di utilizzare queste strutture in maniera più scientifica, per squadre di calciatori che fanno di questo gioco una professione. È da lì che, forse, parte l’Orrico allenatore e profeta della zona che attraversa tutta la Toscana (Massese, Carrarese, Lucchese, Prato) e zone vicine (Sarzanese) portandosi dietro il proprio verbo.

A Milano Orrico arriva senza pretendere troppo. Né un ricco stipendio (“Arrivo all’Inter con uno stipendio da operaio specializzato, per sentirmi in sintonia col partito che ho sempre votato”, dice per ricordare la tradizione politica di sinistra della famiglia e per prendere le distanze dal paragone con Sacchi), né acquisti roboanti. No, l’unica cosa che il neo allenatore chiede (e ottiene) è la gabbia.

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L’Inter che Pellegrini gli mette a disposizione non è una squadra avara di talento. Ci sono i già citati Matthaus, Klinsmann, Berti e Zenga ma anche i Desideri, i Brehme, i Dino Baggio, i Ferri e i Bergomi

I Nerazzurri 1991-92 sono un misto di talento e personalità. Tanta. Troppa per sopportare le novità introdotte da Orrico. Che non si limitano alla gabbia. Oltre a questa, infatti, Orrico si porta dietro il sogno di resuscitare il WM, il modulo di gioco che fece grande l’Ungheria degli anni ’50, quella dei vari Hidegkuti, Puskas, Kocsis…quella cioè che è rimasta nella mente del tecnico toscano come il modello da imitare.

Tutto questo fa parte dell’Orrico visionario. I giocatori, nonostante la perplessità di fronte alle idee e ai metodi del nuovo allenatore, provano a seguirlo, ma la squadra non gira. In verità il WM era stato in parte accantonato verso un 4-3-3 comunque innovativo per i tempi.

Orrico se ne fotte delle difficoltà e non cambia di un centimetro la sua traiettoria. E così si arriva a quel fatidico 19 gennaio 1992, ore 16.30, quando tutto finì, dopo appena sei mesi dall’inizio.

“Ritengo che la mia presenza qui all’Inter sia più negativa che positiva, quindi è bene che tolga il disturbo.” 

Ancora oggi non si è capito se i giocatori si siano pian piano, magari inconsciamente, staccati dal proprio allenatore, erodendo il consenso intorno a lui come la goccia che scava la roccia o se la squadra non fosse tecnicamente in grado di esprimere quel tipo di gioco voluto da Orrico.

Per Orrico non ci sono dubbi su chi sia l’unico responsabile della situazione.

“Non darei le dimissioni se pensassi che i responsabili fossero altri. Mi prendo tutte le responsabilità di questa vicenda. Ho fallito io non l’idea che volevo portare all’Inter, che secondo me è valida.”

Non ci sono molti alti da ricordare di quel campionato. Io seguivo con simpatia la Sampdoria reduce dalla vittoria dell’anno prima e che di lì a poco sarebbe stata immeritatamente sconfitta dal Barcellona di Johan Cruyff (toh, un altro rivoluzionario) a Wembley nella finale di coppa Campioni, ultimo atto di un torneo che per molti era allora più bello della moderna Champions League.

Per questo blucerchiatismo forse ricordo il 4-0 con doppietta di Attilio Lombardo con cui gli uomini di Vujadin Boskov regolarono l’Inter alla quarta d’andata a Genova.

Ma ricordo anche gli articoli sulla Gazzetta dello Sport che cercavano di tracciare la novità tattica introdotta da Orrico.

Tutti questi sono ricordi di un ragazzino che si avvicinava agli aspetti tattici del calcio e che era affascinato da tutto ciò che di progressista e rivoluzionario il football andava proponendo. Certo il calcio, a quell’età in cui si frequentano le medie, è fatto di giocatori, giocate, dribbling e gol. Ma per me, non solo di questo.

Accanto al gol di Roberto Baggio a Napoli dopo aver scartato tutta la squadra partenopea c’era l’URSS di Valeri Lobanovsky. Accanto ai numeri di Maradona c’era il Milan di Sacchi.

Così, come non rimanere affascinato da Orrico? Mai banale, mai scontato…uno che di sé diceva: “per ingaggiare il sottoscritto bisogna essere o troppo bravi o troppo incoscienti.” Uno che proponeva un’idea nuova.

Ma, soprattutto, di quel tempo mi resta qualcosa che ho comprato quasi vent’anni dopo. Un ricordo del calcio di Orrico. Un libro scritto dal tecnico di Volpara insieme a Sergio Buso, antesignano della figura dell’analista tattico, grande conoscitore di calcio ed ex allenatore del Bologna. Titolo: Esercitazioni tecnico – tattiche – Su mini campo recintato e su campo ridotto – incluso DVD. Un vademecum sull’uso della gabbia.

Dicono che oggi Orrico non se la passi bene. La vita lo ha segnato con tragedie ben più grandi di quella fallita esperienza lavorativa. Segnato come ti può segnare il suicidio di un figlio. Vive con la pensione da operaio ma ha dovuto vendere la proprietà di Volpara. Chissà se ogni tanto Orrico torna con la memoria a quel campionato. A quello che poteva essere e, invece, non è stato.

La storia è piena di rivoluzioni. Anche di rivoluzioni fallite.

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