L’ordine degli addendi (Amare Ivan Zamorano)

di Simone Pazzano

Bordeaux, 11 giugno 1998. Italia-Cile è la prima partita del gruppo B dei mondiali francesi. Tutti pronti a tifare per gli azzurri, ma prima ci sono gli inni. Parte quello cileno e dopo pochi secondi è chiaro che c’è una voce che spicca sulle altre, più forte e nitida di quella di tutti i presenti allo stadio. Un’energia incredibile. Quella voce e quella carica provengono dalla maglia numero 9. È Ivan Zamorano. Per un attimo mi sento anche io un cileno pronto alla battaglia sportiva. No, il mio non è un eccesso di interismo, non c’entra nulla. È così semplicemente perché Ivan ti trascina, sempre. Ti coinvolge, sempre e comunque.

Non so se scendesse direttamente dal cielo, come sosteneva Jorge Valdano, o se prendesse l’ascensore per colpire di testa. Non so come facesse a non fermarsi mai un attimo per rifiatare: anche quando esultava, correva e ci dava dentro come un matto, quasi ti veniva voglia di dirgli, cavolo non stancarti pure per festeggiare. So solo che Ivan Zamorano c’era sempre. Non eri tu tifoso che gli facevi sentire la tua presenza e il tuo sostegno, era lui che rassicurava te. Come fosse dietro di te mentre guardavi la partita alla tv o allo stadio, a darti una pacca sulla spalla e dirti: tranquillo, io ci sono.

Normalmente i fenomeni sono quelli che in campo creano spazi che per gli altri non esistono nemmeno. Zamorano era diverso, era unico: lui arrivava in spazi irraggiungibili per chiunque. Basta guardare i suoi gol: sono praticamente tutti in estensione. Ivan che si allunga di testa o in scivolata per impattare là dove è impensabile che qualcuno possa arrivare e spingere con forza il pallone in rete. Come ci riusciva? Doti fisiche eccezionali certo, ma quelle le hanno in molti. Non bastano.

Un esempio è il gol che ha fatto in una delle sue partite simbolo, nel bene e nel male, in nerazzurro. Quella finale Uefa del 1997, persa con lo Schalke 04, in cui Ivan prima ci ha illuso e poi deluso. Rimessa laterale, Ince prolunga di testa e Ivan ci rimette in gioco all’85’. In che modo? Colpendo il pallone con la punta del piede, con l’ultima parte di corpo che poteva toccare un pallone non semplice, destinato a perdersi. Gesti che riesci a compiere non solo grazie all’intuito, ma anche e soprattutto per merito della grinta e della voglia di non mollare mai nemmeno un centimetro all’avversario. Ed è questa determinazione che gli permetteva di arrivare sempre su quei palloni. D’altronde è nel dna dell’Inter: con questi colori si affermano allenatori e giocatori che al grande talento uniscono cuore e forza fisica.

Quella finale la perdemmo ai rigori e uno degli errori decisivi fu proprio di Ivan, ma i veri guerrieri sanno rialzarsi. E lo fanno subito. L’anno dopo c’è anche il suo sigillo sulla vittoria della Coppa Uefa. Tutti ricordano il gol in finale con la Lazio, ma io non posso dimenticare l’1-0 nella semifinale d’andata contro lo Spartak Mosca, a San Siro. Non è un gol spettacolare, di quelli che vedi e rivedi per anni, ma c’è tutto Ivan in quello stacco di testa potente, quasi violento. Ci sono io che urlo a squarciagola e c’è mio padre che mi guarda e dice: aveva così tanta voglia di far gol che l’ha schiacciata in testa al difensore. Sì perché il gol è tutto di Ivan, ma guardatelo e riguardatelo: non sembra spingerla addosso all’avversario, come a costringerlo ad aiutarlo a fare gol? Fantasie, pensieri romanzati di un tifoso probabilmente. Di vero c’è una cosa: il cuore del cileno. Quello che batte forte come pochi e che non si ferma davanti a nulla, figuriamoci davanti a un difensore russo.

I numeri raccontano che quella in nerazzurro è stata la sua esperienza meno prolifica dal punto di vista della media realizzativa. Ma che, a modo suo, fosse un fenomeno è chiaro. Lo dimostra la continuità con cui per anni è riuscito a dialogare con Ince, Djorkaeff, Ronaldo, Baggio, Vieri: cambiavano gli allenatori e le stelle del reparto d’attacco, ma lui era sempre la miglior spalla possibile. E spalla è anche riduttivo, perché non dimentichiamoci che è arrivato a Milano come l’attaccante principe del Real Madrid e dell’intera Liga spagnola. E comunque, anche all’Inter quando il match contava davvero lui la buttava dentro. Nelle partite simbolo, quelle che tutti noi tifosi ricordiamo per le giocate e i gol di Ronnie, del Divin Codino o di Bobo lui il suo marchio lo metteva sempre: gol e assist. Potevi scommetterci su.

In campionato non ha mai raggiunto la doppia cifra. Qualcuno se n’è accorto? Io sinceramente no, l’ho scoperto un giorno per caso. E sì, mi sono stupito, perché comunque la sua presenza in campo era così determinata e determinante da darti l’idea che segnasse caterve di gol. Quando ho visto però a che cifra si è fermato, tutto è tornato ad avere senso. Il suo massimo di reti in un campionato? 9. Ovvio. Stiamo parlando di mister 1+8. Se fate la prova del nove vi accorgerete che con Ivan i conti tornano, sempre.

Rispondi