Due ragazzi baresi – lettera ad Antonio Cassano

Tutti, gioventù che eravamo, si sussurrava che il futuro dovevi aggredirlo appena affacciato il muso preoccupato fuori dalla tana. (Tre ragazzi immaginari, Enrico Brizzi)

Essere nati e cresciuti nella parte “nuova” di Bari può essere una sfortuna, narrativamente parlando. Sì, perché ci allontana da te, Antonio, e delude le aspettative dell’interlocutore. “Ah, sei di Bari? Bari vecchia?“. “Ehm no. Bari nuova.” rispondi. Come se ci fosse una Bari nuova, un contraltare a chi crede che dalle nostra parti tutti i bambini crescano come Antonio Cassano. Mentre io sono cresciuto nell’agio degli anni ’80, bastava cambiare strada in fretta per evitare gli scippatori di Swatch. Al massimo iniziare a correre, se la faccenda si faceva più preoccupante. Faccio fatica a trovare qualcosa che ci accomuna Antonio. Io sono nato benestante, e con il tempo e gli avvenimenti ho dovuto imparare a stringere i denti. Tu sei nato povero, poi con il tempo hai imparato persino ad annoiarti. È ciò che capita a chi non ha bisogno di nulla, se non dell’allegria e della spensieratezza. Di un pallone tra i piedi, e di qualcuno da dribblare. Come quella volta in cui hai mandato Blanc e Panucci alla stazione, come fanno i ragazzini della città vecchia con quei turisti borghesi e impettiti che gli chiedono indicazioni per arrivare alla Basilica di San Nicola.

Ricordo ogni sensazione di quella sera: il gol di Eninnaya, la spocchia di Lippi, Ferron che prende il posto di Peruzzi e che non può sapere, che di lì a poco verrà immortalato in un video da milioni di visualizzazioni su Youtube per i successivi 20 anni. Perché Ferron in quel video c’è, ma non ci prova nemmeno. Nessuno si ricorda che movimento fa, quanto vada vicino a prendere il pallone. Perché in ogni caso non avrebbe mai potuto nulla. Come il portiere de “La leva calcistica del 68”, quello che non può fare altro che guardare e “lasciarlo” passare. Ma se a Nino c’era bisogno di dire di “non aver paura“, a te no. Perché tu sei cresciuto tra i vicoli, la paura l’hai respirata, ed hai imparato presto a non averne mai. Poi ammettiamolo, a 18 anni era più facile per entrambi non averne.

Ti scrivo in un momento in cui io, invece, di paura ne ho tanta. Sto per tornare a Bari, a dire addio alle mie radici. Anche nel rapporto con le nostre madri siamo stati molto simili. Non avere un padre, o averlo perso presto, ti porta ad avere un legame morboso, quasi innaturale con l’altra metà del tuo cielo. Vorresti portarla ovunque, vorresti fosse sempre con te, poi ti accorgi che il tempo è inesorabile, e non può durare per sempre. L’hai fatto a Roma, a Madrid, a Genova, a Milano, e forse lo farai ancora. Io non ho potuto e non potrò più, ma questa è un’altra storia. Il tuo compleanno è l’occasione per dirti che in fondo non siamo così diversi. Che non sono i soldi a rendere simili le persone, né la classe sociale. Sono le storie, i destini, i momenti difficili, il talento e la pigrizia. E la paura che tu non conosci e io sì.

Avrei voluto vederti più tempo con la maglia dell’Inter, la tua squadra del cuore. Avrei voluto sentirti dire ancora un po’ che “Il Milan sta in cielo, ma l’Inter è sopra il cielo” con quella strafottenza di chi sa che prima o poi certe frasi ti si ritorcono contro, ma – fanculo – le dici lo stesso. Ogni tanto guardo quella tua foto con la maglia della Pro Inter a Bari, il borsone più alto di te e un pulmino che ti aspetta e sorrido nel pensare alla tua felicità di quel momento. Una maglia da indossare ed esibire con orgoglio. E che ne sapevi che a San Siro ci saresti arrivato davvero, passando per la notte del San Nicola, per quel dribbling che Maradona avrebbe definito una giocata da scostumato, senza il minimo timore per i destini di Blanc e Panucci. Ma chi non ha paura, non ha reverenza.

Veniamo da Bari entrambi, Antonio. Anche se tu dici che “Genova è casa tua“. Ed io, barese orgoglioso come tanti, ho smesso di prendermela, perché poi in fondo ognuno è libero di scegliere il proprio posto nel mondo e non sarò io, né l’anagrafe, a decidere il contrario. In un libro bellissimo di Brizzi che si chiama “Tre ragazzi immaginari”, ispirato ad una canzone dei Cure, si dice: “Facevamo dei sogni strani una volta! Volevamo una vita in stile moderno! Essere senza radici! È vero! Ci sono spuntate, poi, a furia di negarle! Si sono insinuate sotto la terra mentre progettavamo di andarcene!” Ma siamo entrambi più liberi e scostumati di ciò che pensi, anche se io sono nato nella parte nuova di Bari, quella priva di letteratura, quella dove Carofiglio non ambienterebbe nessun romanzo, nessuna grande storia.

E allora non mi resta che raccontare la tua, perché in fondo sono sempre stato più bravo a raccontare le storie degli altri. Trentacinque anni sono tanti, ma non troppi, anche se la mia idea di calcio è cambiata da quando la mia età è più vicina a quella degli allenatori che a quella dei giocatori. Dovevano spiegarcelo che era così, che questo gioco aveva visuali e prospettive diverse, anche se poi arriva il momento in cui ci fa sentire tutti bambini, e quei momenti sono molto simili a quegli attimi in cui il pallone tra i piedi ce l’hai tu. Buon compleanno Antonio, non vedo l’ora di vederti ancora felice in campo, fosse anche da fermo, a Verona come a Bari, come a Milano. Non importa qual è casa tua, né quale sia la mia. Importa la felicità, ed è per questo che ce l’andremo a riprendere.

 

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