Settore ospiti
Per motivi anagrafici non ho mai visto giocare il Grande Torino, ed è uno dei miei più grandi rimpianti calcistici. Quella leggenda l’ho sentita da mio padre, e l’ho ascoltata con il disincanto di chi sospende l’incredulità per accettare l’assioma non replicabile che quella squadra era la più forte del mondo. Semplice, inattaccabile, palese. E che forse quella squadra sarebbe la più forte del mondo anche oggi, perché un giocatore completo come Valentino Mazzola non è esistito più, e un legame così tra i calciatori e la propria gente nemmeno, perché il Toro non era una squadra, e nemmeno una filosofia. Il Toro era un contesto, uno stato d’animo, un ribollire di sentimenti umani e terreni. Ecco perché, a sapere che c’è una squadra che gioca in cielo, oggi, c’è qualcosa di metafisico.
Non si può non amare il Toro anche se non si tifa Toro, e se non ho visto giocare il Grande Torino. Ne ho visto uno altrettanto bello e combattivo, certamente meno vincente, ma assolutamente rivoluzionario. Era la squadra che arrivò in finale di Coppa Uefa, quella di Amsterdam e della sedia di Mondonico al cielo, un undici da mandare a memoria, da Marchegiani a Martin Vasquez, passando per Cravero. Una squadra hipster per l’epoca, anche nella conformazione fisica: i baffi languidi dello spagnolo, i riccioli unti di Casagrande, i calzettoni sempre abbassati di Gigi Lentini. E poi due giocatori completamente fuori contesto, eppure così fondamentali. Due difensori che sapevano fare solo una cosa: difendere. Nulla a che vedere con i centrali moderni che devono costruire, lanciare, creare superiorità numerica. A Pasquale Bruno e Tarzan Annoni era chiesto solo di non far respirare l’attaccante avversario. E quando era possibile di terminare la partita in campo.
Mi innamorai di quel Toro durante la cavalcata europea. L’Inter era andata fuori al primo turno contro il Boavista, a causa di una partita di andata bruttissima e di un ritorno con le polveri bagnate, ma quell’anno sì che era un piacere tifare per le italiane, perché erano Genoa e Torino a rappresentarci in Coppa Uefa. Da una parte Branco e Aguilera che espugnavano Anfield, dall’altra Casagrande e martin Vasquez che eliminavano il Real Madrid. A raccontarlo oggi non sembra neanche vero. E non sembra vero che in una notte di maggio del 1992 il Real si ritrovò al cospetto di un Delle Alpi tutto granata, come io non l’avevo visto mai, davanti ad una squadra capace di puntare alla porta senza troppi fraseggi. Un gioco verticale che iniziava il più delle volte con un lancio preciso di Cravero, giocatore avanti di dieci anni per l’epoca, e con una spizzata di Walter Casagrande, uno che quell’anno sembrava baciato dalla grazia, la stessa che non aveva nei movimenti.
Ma se c’era da nascondere il pallone ai difensori avversari, e favorire le incursioni delle due ale, lui sapeva farlo. E poi c’era Gigi. C’è qualcosa di mistico ogni volta che un giocatore indossa il numero 7 del Torino. Qualcosa di simile, e forse di più grande avviene a Manchester, e guarda caso si tratta di due squadre europee con un tragico destino in comune. Il 7 era il numero di Menti, quello di Gigi Meroni, e quello di Lentini. Quello che accadrà dopo, con il suo passaggio al Milan, i gossip, i vizi (chi non ne ha) non è oggetto di questo pezzo. La sua prima mezz’ora contro il Real Madrid sì, e ricordo le urla di Hierro verso la panchina. Chiedeva a Beenhaker di farlo marcare a uomo. Leo, uomo di calcio olandese, avrebbe preferito affondare piuttosto che andare contro uno dei dettami del calcio totale. Infatti affondò.
L’intellingenza tattica di Vincenzo Scifo, quella che non abbiamo avuto modo di vedere a Milano 5 anni prima, il gran correre di Fusi e Venturin, permetteva a Mondonico di poter liberare Lentini da qualunque compito che non fosse quello di dribblare gli avversari e mettere il pallone al centro per Casagrande. Un disegno tattico nato sui campetti di periferia, quelli dove giocano i bambini. Quello magrolino, con i capelli lunghi e l’aria da maledetto, quello che piace alle bambine, ed è innamorato del pallone, deve pensare solo al pallone. Lo so, questi ragazzi non avevano nulla a che vedere con Loik, Mazzola e Gabetto, ma fu comunque un gran bel Torino. Trovò sulla sua squadra una traversa, un arbitro poco generoso e forse la squadra più forte degli anni ’90. Non era ancora quella di Seedorf, Davids e Litmaneen, ma Van Gaal stava già lavorando su un progetto che sarebbe andato molto al di là della Coppa Uefa conquistata, con una partita assai poco olandese, quella sera. Perché Mondonico sapeva anche rendere la vita difficile agli altri. Oggi si direbbe “sporcare la partite”, ma di sporco al Delle Alpi quella sera c’erano solo le maglie del Real, ma così poco blanco. con giocatori costretti a rincorrere, a fare tackle, a sudare. A quel miracolo non riuscito di Amsterdam, alla classe di Lentini, allo spirto guerriero di Annoni e alla faccia incredula di Gianluca Sordo, noi rendiamo grazie. Benvenuti nel settore ospiti di San Siro.
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