Di Davide Franzini
La notizia mi aggredisce come una goccia di olio bollente che scoppia in viso, mentre in padella friggono i cordon bleu per la cena: Mourinho non convoca Balotelli. Perché? Strascico i piedi fino a tavola, nel piatto patate rosmarine che spingo con fatica in una bocca piena di domande. Perché? Perché sconvolgere così una vigilia tanto delicata? Fisso le bottiglie di Heineken vuote sopra la credenza in cerca di risposta, mi avvicino ed esamino scrupolosamente l’etichetta. Dice che la birra è stata imbottigliata a Sesto San Giovanni. Mi lavo i denti, dò un’ultima controllata agli appunti e vado a letto: domani ho un orale e l’Inter gioca il ritorno degli ottavi.
La notte è angosciosa come un lenzuolo sudato a metà marzo, telo su cui il subconscio proietta fotogrammi tra campo e irrealtà: Milito segna un’altra volta il gol dell’andata e Balotelli scherza Malouda, mentre nella stanza accanto Drogba mi sta interrogando. Mi trascino nel giorno con in gola il groppo delle grandi occasioni, in testa la determinazione dei giorni d’esame avvolta da una foschia nerazzurra. Salgo sul tram, una delle vecchie carrozze di Milano con le panche in legno bruno e le targhette che vietano di sputare e parlare al manovratore; non avevo intenzione di fare l’una né l’altra cosa. Cammino verso l’università schivando aiuole e merde di cane, e quando entro in aula i fucili sono puntati, contro di me e contro un portoghese che ha lasciato a casa il più fulgido talento tricolore nella notte più importante. Ripasso mentalmente e mentalmente canto Forza Inter vinci e lotta insieme a noi. Rispondo bene e il professore mi congeda soddisfatto: ho fatto la mia parte, ho sbattuto in Bovisa le mie ali di farfalla nerazzurra sperando di causare un uragano a Stamford Bridge.
Sulla strada di casa compro la Gazzetta, deciso a gustarmela in un pomeriggio di decompressione studentesca. Macchè. Mi sento come una sposa o un condannato a morte, tanto tempo e nessuna occupazione all’altezza dell’evento che mi attende. Leggo e rileggo gli articoli, fumo, gioco a poker online. Esco a fare due passi, e al ritorno incrocio sul pianerottolo la mia vicina di casa: è vecchia, è sola, oggi poverina è più burbera e giallastra del solito. Mi chiedo se porti bene. Sbuffo le troppe ore che mi restano nell’angusta clessidra dell’ansia, fino a spingere sul fondo ogni granello, ogni minuto, ogni secondo: finalmente è sera ed entro al FourFourTwo di Via Procaccini, sacrestia pagana del football milanese, interni in legno e sciarpe da tutto il mondo alle pareti. Sorseggio una media chiara con gli amici, esco a fumare una sigaretta e telefonare alla mia ragazza. Mentre ci raccontiamo la giornata vedo le formazioni, e mi incanto: Pandev-Sneijder-Eto’o-Milito tutti insieme, noi che due anni prima si andava ad Anfield con Maxwell e Zanetti esterni di centrocampo. Ma mi stai ascoltando? No, ma la conosco da anni e sento il bisogno di raccontarle perché. Non gliene importa nulla, ma dice che è contenta per me, senza ironia.
Squillano le trombe e ci richiamano all’ordine, e in campo scende un’Inter diversa da quella che ha tremato in troppe serate europee; una squadra intraprendente come Maicon, solida come Lucio, sfrontata come la linguaccia di Thiago Motta. Nel primo tempo non segniamo noi né loro, e all’intervallo si commenta soddisfatti l’equilibrio che abbiamo imposto ai campioni d’Inghilterra. Stiamo evocando sul marciapiede il colpo di testa ciccato da Eto’o, quando dall’interno risuona una melodia di tanti anni fa. È la malìa dolce di Wesley il musico, Wesley il folletto nordico, Wesley il giocoliere che sospende la realtà e la reinventa: gli obbediscono il pallone, l’aria, i fili d’erba. Nascon fiori dove cammina. Lancia un mazzo di rose che Eto’o non coglie, poi con il tacco stende un tappeto di campanule ad accompagnare Pandev in porta, ma invano. Porge una margherita che Milito si perde a sfogliare, e un tarassaco che Thiago Motta soffia via con troppa disinvoltura. Poi il maghetto olandese ferma il tempo e lo riavvolge, e a dieci dalla fine lancia le rose ad Eto’o, le lancia un’altra volta: Samuel non sbaglia, e per gli inglesi è un crisantemo, e per noi è profumo di lavanda e il colore dei gerani, è la vita che esplode a primavera; il FourFourTwo impazzisce di urla, salti, abbracci, e quando provo a rassettarmi il gioco è ripreso da due minuti e la mia sedia è finita tre tavoli in là.
Esco dal pub, e Milano è una città nuova. Milano luccica. Alla fermata dei mezzi una coppietta si sta baciando e vorrei dir loro Ma che fate, non sapete che l’Inter ha appena dominato una grande d’Europa? Salgo sul tram e vorrei parlare al manovratore, vorrei chiedergli L’hai ascoltata alla radio, vero? Lo sai che l’Inter ha appena dominato una grande d’Europa? La notte gongola, e il giorno dopo all’università sorvolo gaio le lezioni e sorvolo gaio le aiuole sulla strada del ritorno; il tram è fermo al capolinea, salgo ed apro la Gazzetta. Le porte si chiudono e inizia il viaggio verso casa: dietro di me, la Bovisa; di fronte, l’Europa.
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