Trecentotre derby disputati, ottocentottanta gol segnati, otto ricordi che la nostra Redazione ha voluto condividere con tutti voi.
Con i pantaloni corti
Milan – Inter 3 a 0, 8 novembre 1970
Era un Milan-Inter, era di novembre e l’Inter era discretamente nella merda. E vorrei che le analogie tra quel lontano derby e quello che ci apprestiamo a giocare si fermassero qui, perchè finì 3-0 per loro. Anzi no, facciamo che dopo questa doverosa parentesi sul risultato le analogie ripartono: perchè – pur dolorosamente persa – fu la partita che cambiò il nostro campionato e anche il loro. Proprio da lì, da quel mesto pomeriggio, e contro ogni aspettiva, l’Inter prese il volo per lo scudetto.
Allora, era l’8 novembre 1970, io ero molto piccolo e i miei zii, con una decisione che oggi avrebbe immediatamente allertato Telefono Azzurro, mi portarono per la prima volta a San Siro in un’occasione tutt’altro che morbida: un derby in trasferta, lo stadio pieno di milanisti, roba da rimanere traumatizzati a vita. In campo c’era la Storia – Facchetti, Rivera, Mazzola, Burgnich, Trapattoni, Prati solo per citare i nomi più clamorosi – e io ero troppo acerbo e intimidito per capirlo. Quello che coglievo erano le immagini a colori – ehi, ma è proprio un prato, è verde! – e una spaventosa muraglia umana di gente rozza che, per la maggior parte, non tifava per la mia stessa squadra.
Cioè, un immenso puttanaio (per quanto all’epoca non mi sarei mai espresso in questi termini) in cui quei due zuzzurelloni avevano portato il nipotino vergine di certe emozioni e di certi ambienti.
L’Inter era priva di Boninsegna, Jair, Bedin e Bellugi. No, per dire, come se adesso fossero fuori Icardi, Perisic, Medel e Murillo (no, non rende). Il primo tempo fini 0-0 ma il secondo fu un massacro. Sui motivi che portarono i miei zii a scegliere i distinti sud (oggi primo anello blu) per andare a vedere un derby in trasferta, ancora oggi mi interrogo invano. Come una punizione divina, il Milan segnò i suoi gol proprio in quella porta: Biasiolo, Villa, Rivera. Non ho ricordi dell’uscita dello stadio in una bolgia in cui festeggiavano gli altri, nè del ritorno a casa, Milano-Voghera, 70 km (immagino) di lunghi silenzi.
Perché ricordare quel derby disastroso, costringendo chi legge a mettersi le mani sui coglioni? Non solo perchè fu la mia prima partita a San Siro, e quindi ne conservo un ricordo affettuoso e a suo modo struggente. Ma perché quella partita, quel derby del novembre 1970, cambiò la storia di quell’Inter. Ed è questo che auguro all’Inter e a Pioli: non quel risultato, ovvio, ma di cambiare la storia.
Cosa successe? Il presidente Fraizzoli, quella sera stessa, esonerò Heriberto Herrera, e consegnò la squadra all’allenatore della Primavera, Giovanni Invernizzi. Bedin fu reintegrato in rosa, Bonimba tornò in squadra e alla fine ne fece 24 in 28 partite, fu una splendida cavalcata che si concluse con lo scudetto numero 11.
Quel derby costò la partita a un allenatore e diede a un altro dal cognome meno altisonante la chance di scrivere il suo nome nell’albo d’oro. Questo derby lo giochiamo con un allenatore nuovo, al suo debutto, e col Milan troppo avanti per i nostri gusti. Anche in questo balletto di panchine vedo qualche segnale, ma facciamo così: lo tengo per me.
@roberto
Il loro incubo peggiore
Inter – Milan 3 a 1, 14 aprile 1995
Nicola Berti è uno di quei giocatori che nella pallavolo definiremmo universale. Aveva la progressione di un attaccante, lo spirito di sacrificio di un centrocampista puro e la scelta di tempo e la statura di un difensore. Esuberante, simpatico, coinvolgente.
Michele Dalai l’ha definito “ragazzo magico”, e per anni lui è stata la nostra unica risposta al dominio rossonero. Loro avevano la squadra più forte del mondo, noi avevamo la possibilità di rovinargli di tanto in tanto la reputazione con un gol del loro incubo peggiore.
Il ragazzo con i calzettoni abbassati e la faccia da figlio di puttana.
Siamo ad aprile del 1995, e l’Inter è una squadra tutt’altro che irresistibile. Vado a memoria, lo giuro su Google: Pagliuca, Bergomi, Paganin, Seno, Festa, Bia, Bianchi. Jonk, Delvecchio, Bergkamp, Berti. Allenatore Ottavio Bianchi. A scanso di equivoci vale la pena ricordare che Bergkamp non è nemmeno lontanamente il giocatore ammirato all’Ajax e quello che diverrà all’Arsenal.
È un meraviglioso equivoco nella mani di un allenatore molto prudente (per usare un eufemismo) e con evidenti problemi di ambientamento.
Lui e Jonk hanno una sola grande colpa: sono i cugini dei cugini olandesi dell’altra metà del cielo. È l’Inter degli anni ’90 ha un’anima tedesca. Non quella sera, nella partita in cui Bergkamp e Jonk decidono di fare la differenza. Ruben Sosa deve recuperare da un infortunio, è appena rientrato e poi lui e Dennis proprio non si prendono. Anzi. Forse è per questo che Bianchi decide di giocare, praticamente, senza punte. Perché di fatto Delvecchio è un tornante, e se ne accorgerà Capello a Roma, mentre Berti è… Beh, Berti e Berti. E se è in stato di grazia può fare anche il centravanti, e giocare con il numero 11.
La partita la sblocca Seno, e già di per sé basterebbe a dire: “Ok, chiudiamola qui e raccontiamo ai posteri di quel derby deciso da Seno di testa su calcio d’angolo”. Ma quando ci esaltiamo, ci piace farlo sul serio. La combinazione tra Bergkamp e Wim Jonk, quella del secondo gol, è l’assolo di due violinisti d’orchestra in una balera. Poi si soffre, segna Giovanni Stroppa e ci si prepara alle solite barricate di Ottavio Bianchi e alle sigarette di Moratti.
Invece no, esce Alessandro meravigliosa ala Bianchi ed entra Ruben Sosa. Berti si sposta a centrocampo, e nessuno può immaginare quello che sta per succedere. C’è Ruben che che riceve un pallone sul vertice sinistro dell’area. Alza lo sguardo e vede Berti da solo. Non è raro, perché Berti ha una capacità avveniristica di inserirsi nello spazio. È un giocatore contemporaneo prestato alla modernità. Sosa lo serve con un pallonetto. Di solito, un centrocampista arriva su quel pallone completamente scoordinato, invece Nicola Berti non solo non chiude gli occhi, ma abbassa anche il busto, come gli hanno insegnato a scuola calcio. Colpisce il pallone di collo pieno e segna un gol meraviglioso. Nessuno si accorge, in diretta, che quel pallone ha sbattuto prima contro la traversa e poi contro la schiena altezzosa di Seba Rossi.
È così che una conclusione perfetta si trasforma nella più beffarda delle sentenza, la sintesi di un derby suggellato da Nicola Berti. Bello e un po’ sporco al tempo stesso.
Con gli occhi da angelo e la faccia da figlio di puttana.
Forse non è stato il derby più bello tra quelli che abbiamo vinto, ma certamente è stato uno dei più brutti tra quelli che hanno perso loro. Indimenticabile, come la coordinazione di Berti e un portiere piegato su se stesso a chiedersi cosa è successo.
@cristiano
Per sempre lassù
Milan – Inter 0 a 3, 22 marzo 1998
All’ottantasettesimo minuto lassù fa freddo, un freddo cattivo come solo quello di marzo che non ti aspetti. Prima una giornata di tiepido sole, poi un tramonto che pare fin troppo per il prezzo di un biglietto di terzo anello e poi il gelo che lentamente ti mangia le ossa perché tu hai deciso di presentarti all’appuntamento con la storia conciato come fosse il 10 luglio, con una maglietta di Simeone come unico scudo contro la primavera che non arriva.
Lo avevano fischiato il Cholo, dopo essere stato sostituito in un delle prime partite gli era toccato il trattamento che i loggionisti nerazzurri riservano a chiunque non li convinca nei dieci secondi inaugurali (in quel caso tutto è perdonato per l’eternità). Ci era rimasto male Diego Pablo Simeone, eroe dell’Atletico campione di Spagna planato su San Siro per prendersi il centrocampo. Faccia da pugile, corsa sbilenca, grinta da commuoversi, partita dopo partita aveva ricacciato i fischi in gola agli snob e ai somari
All’ottantasettesimo minuto di quel derby di marzo ero in pieno stato confusionale, vincevamo 2 a 0 fuori casa e tutto sembrava possibile. Il Milan schiantato contropiede dopo contropiede, Moriero che folleggia sulla fascia e irride il povero Ziege senza sudare nemmeno troppo, tunnel e poi dribbling secco, accelerazione e poi cambio di direzione. Sebastiano Rossi con le mani lungo i fianchi che non si capacita del pallonetto di esterno di Ronaldo e poi quel passaggio di Cauet a soli tre minuti dalla fine della partita. Spingere un giocatore dall’alto, da lassù è impossibile eppure ci sono momenti in cui il calcio diventa una semplice proiezione della volontà di chi lo guarda. La palla di Cauet, che si è appena mangiato due gol assurdi a tre metri dalla porta, è precisa, perfetta per la corsa di Simeone che la trascina in avanti. Di più, la falcata del Cholo ricorda qualcosa di primitivo, come se stesse rotolando in avanti un masso o facendo cadere a valle una balla di fieno, la palla prende velocità e lui si ritrova a rincorrerla più che a dominarla. Sulla sua destra arriva a rimorchio l’attaccante più forte del mondo, uno dei più forti di sempre, ma Simeone non può né vuole guardarlo, perché sono io a muoverlo e io voglio che sia lui a segnare.
All’ottantasettesimo Diego Pablo Simeone e Ronaldo sono pari, un gol a testa. Non si amano, non si odiano, più che altro convivono e sono due tra le tante anime dispari di un gruppo perfetto e scombinato. Simeone si allarga e punta la porta, strappa per evitare il recupero di uno che potrebbe essere Desailly ma né io né Diego lo sappiamo perché non ci possiamo permettere di perdere la concentrazione. La palla di Cauet arriva dalla nostra metà campo e Simeone parte prima della linea per affrontare le terre selvagge del campo nemico. Corre e corre ancora, io lo aiuto e arriviamo davanti a Sebastiano Rossi, che dieci minuti prima ha incassato il pallonetto di Ronaldo e non può permettersi un’altra umiliazione e allora esce e carica a testa bassa, spinge i suoi quasi due metri alla massima velocità e cerca di chiudere lo spazio per il tiro, di ridurlo a uno spiraglio. Me l’aspettavo, ce l’aspettavamo e per tutta risposta anticipo il movimento e decido di tirare, solo che mi accorgo che nel mio joystick c’è qualcosa che non funziona al meglio perché la palla non si stacca dal piede di Simeone, che la tocca di nuovo in avanti e si ritrova sulla stessa linea di Sebastiano Rossi. All’improvviso i due corrono fianco a fianco verso la linea di fondo, il mio collegamento con il Cholo è interrotto e pare evidente a tutti che da quella posizione non si possa più fare gol, perché nel frattempo portiere e centrocampista sono arrivati quasi alla linea di fondo e Simeone non è tipo da rientrare sul destro. Occasione sprecata. E invece no. Con uno sforzo che solo la volontà di un uomo con quella faccia lì può produrre, il Cholo si butta in avanti e passa oltre Rossi, un tocco sporco e la palla rotola in porta placida e lenta. Il tutto dura forse due secondi che nella mia testa diventano un’eternità perché l’eternità è la dimensione cui il Cholo consegna quel gol assurdo.
Fa freddo, indosso la terza maglia di quella stagione e il nome stampato sulle spalle è quello di Diego Pablo Simeone, il numero è il 14 e io corro verso la barriera che ci separa dal terzo anello rosso, corro per mostrare ai tifosi del Milan la mia maglietta, il numero dei sogni, la mia gioia. Corro e batto furiosamente le mani sul plexiglass, le batto al ritmo del mio cuore impazzito, le batto forte perché ho 24 anni e tutto sembra possibile quella notte, la notte in cui il mio giocatore preferito, il più amato di sempre mi prende per mano e mi porta oltre le linee nemiche per cancellare ogni paura, per ristabilire un equilibrio nelle cose celesti e terrene, per dimostrare che non c’è difficoltà troppo grande per la setta dei pugili poeti.
Grazie Diego, sono ancora lassù, per sempre lassù.
@michele
Lasciatemi fumare
Milan-Inter 3 a 4, 28 ottobre 2006
“Materazziiiiiiii!!! Materazziiiiiiii!!!!”.
Dice a me.
“Fuma, Materazzi, fuma. Ti stai cagando in mano, eh? Fuma, Materazzi. Bastardo, fuma.”
Il derby di Milano da anni, probabilmente decenni, è un evento civile. Amici, fidanzati e parenti vari raggiungono lo stadio insieme a prescindere dalla fede; sciarpe, magliette o cappellini a seconda della stagione possono serenamente essere esibiti in qualunque settore dello stadio, curve escluse.
Consapevole di tutto ciò, per il mio primo derby in tribuna VIP non avevo ritenuto problematico palesare la mia fede indossando la sciarpetta d’ordinanza anche se, di fatto, si giocava in trasferta.
Effettivamente mi ero all’improvviso innervosito, o più probabilmente cagato in mano per davvero in quei minuti che separavano il gol di Kakà dal triplice. Una delle principali trappole del tabagismo è quella di convincerti di quanto meraviglioso sia accendersi una sigaretta nei momenti di relax e allo stesso modo di quanto sia impossibile farne a meno nei momenti di maggior tensione: ecco, quella era una sigaretta tesissima.
Il solo apparentemente distinto signore, seduto due o tre file sopra di me, mi aveva puntato a mia insaputa una ventina di minuti prima quando mi ero alzato per applaudire Materazzi mentre lasciava il campo, espulso per aver mostrato i suoi auguri su una maglietta dedicata al figlio Davide, dopo aver segnato il 4-1, anzi l’1-4 (come detto, giocavamo in trasferta).
Per questo aveva deciso di passare i minuti di recupero al mio fianco, coprendomi di insulti e chiamandomi come il mio idolo, pensando di farmi un dispetto. Niente di drammatico in realtà, anzi: il timing era stato perfetto per la sigaretta e di quei minuti ricordo forse un paio di corner, nulla di più. Furono 11-0 per loro quella sera, ma basta guardare le formazioni per capire quanto poco insidiosi potessero essere.
Sì perché quell’estate avevamo deciso di aiutare gli amici dei cugini, quelli con la maglia bianconera, a evitare l’Interregionale e acquistato da loro Ibrahimovic e Vieira, rimpolpando una rosa da cui sarebbero usciti un paio di pacchetti di mischia da Sei Nazioni senza problemi.
Quella sera dovevamo vincere e prenderli a pallate. Forte. Di solito un derby “basta” vincerlo, ma quell’anno no. Troppe le critiche facili verso chi aveva appena vinto il suo scudetto in segreteria e si apprestava (a fine ottobre, eccezion fatta per la meteora Palermo, sembrava già piuttosto probabile) a vincere quello senza avversari.
E pallate furono: 1-2 terrificante nel primo tempo nel giro di pochi minuti, il terzo dopo un giro d’orologio della ripresa. “Oggi gli ridiamo il 6-0” sentii dire dalle parti della tribuna che senza titolo alcuno occupavo da un tale con la memoria troppo corta.
Siamo l’Inter, fieri di esserlo, di finire a mangiarci la sigaretta della tensione dopo averne fumate almeno quattro “da relax” durante un derby che era sembrato chiuso per più di un’ora e che i gol di Gilardino prima e Kakà poi avevano riaperto clamorosamente, dando energia al solo apparentemente distinto signore e a tanti suoi simili per tre o quattro minuti così lunghi da sembrare un’eternità.
Finiti, ricordo che spensi la sigaretta, portai l’indice alla bocca guardando negli occhi il signore per nulla distinto e aspettai che lo stadio si svuotasse per godermelo semi vuoto, come adoro fare dopo ogni partita. Per poi accendere l’ultima, finalmente davvero rilassato.
@tommaso
Agosto nerazzurro
Milan-Inter 0 a 4, 29 agosto 2009
Zanetti, Thiago Motta, Eto’o, Milito, Thiago Motta. “Ma che azione ha fatto l’Inter? Ma che azione ha fatto l’Inter?”, Scarpini e tutti noi siamo in estasi, con la bocca aperta e le mani negli occhi a cercare di stropicciarceli per capire se quello che abbiamo appena visto è tutto vero o un sogno. Palla a terra, passaggi di prima e un tiki taka che neanche il Barcellona.
È tutto vero, sono più o meno le 21.15 di una calda serata estiva del 2009 e l’Inter realizza il primo goal di un derby con Thiago Motta che, dopo una serie di passaggi quasi tutti di prima e un passaggio illuminante del Principe Milito, si ritrova davanti a Storari e lo fulmina.
Poteva bastare quell’azione, eravamo più che soddisfatti e ce ne saremmo potuti andare tranquillamente a casa felici e contenti. Ma Mourinho decide di regalarci sicuramente una delle partite più belle della sua gestione.
La formazione è per 9/11 quella che ci porterà allo storico triplete a Madrid a maggio, con le uniche differenze di Thiago e Stankovic in campo al posto di Cambiasso e Pandev che ad agosto veste ancora la maglia della Lazio. Il modulo non è ancora il 4-2-3-1 con Pandev e Eto’o a farsi il culo sulla fascia ma è un rombo più prudente con Motta vertice basso e Wesley Snaijder vertice alto.
Maicon è in una delle sue serate, corre come un ossesso sulla destra e dai suoi piedi parte l’assist per Eto’o che tutto solo si invola verso la porta rossonera ma viene atterrato in area di rigore da Gattuso. Milito si presenta sul dischetto e la poggia piano tirando una bomba centrale sotto la traversa mostrando un antipasto di quella che sarà la sua stagione: concreta e vincente.
Al 36’ siamo 2-0 e dominiamo. Il nuovo arrivato Sneijder si presenta al pubblico di San Siro con tanta personalità, nonostante sia atterrato a Milano esattamente 24 ore prima, e oltre a una bordata da fuori che fa sudare e non poco Storari, ha il merito di far espellere Gattuso al 40’. Milan in 10 e Inter con il doppio vantaggio, anche in questo caso potrebbe bastarci ma non ci basta, non basta a questi ragazzi affamati.
Sullo scadere del primo tempo c’è un’altra filastrocca da imparare: Zanetti, Milito, Maicon, Milito, Maicon. Di nuovo. Un altro sogno. Maicon e Millito si scambiano più volte la palla, Diego in versione assistman mette nuovamente un suo compagno solo davanti a Storari. Il brasiliano non sbaglia, realizza lo 0-3 e corre per tutto il campo fino ad arrampicarsi al primo anello rosso di San Siro.
Il secondo tempo è nettamente in discesa e arrivano anche il quarto goal con Stankovic che da casa sua riesce a trovare l’incrocio dei pali con un tiro di esterno e tante altre occasioni.
A memoria non vedremo altre partite così ben giocate dall’Inter di Mou, vedremo tante vittorie ma quelle azioni resteranno scolpite in quel 29 agosto del 2009.
Che partita. Che stagione. Un sogno.
Grazie Mou.
@marco
Elogio alla bruttezza
Milan-Inter 0 a 1, 7 ottobre 2012
Chi lo dice che la bruttezza non può essere gradevole?
La bruttezza è ambigua, soggettiva, parziale, arbitraria. Che poi sono aggettivi che si potrebbero applicare anche al concetto di bellezza. Il che non ci fa dire che la bruttezza non esiste. Esistono le cose, le persone e il senso di intenderle. Per me Milan – Inter dell’ottobre del 2012, l’ultimo derby vinto in casa dei cugini, fu di una rara bruttezza. Ma per questo splendido.
Quando penso a quella partita, mi viene in mente il “Grande Cretto” di Alberto Burri. Cemento sopra le macerie, le nostre, quelle di fasti neanche troppo lontani. Sommergemmo i nostri problemi sotto una patina bianca. Le facemmo risplendere sotto il sole, ci illudemmo che fosse genio.
Milan-Inter dell’ottobre 2012 l’ho vissuta lontano da Milano. Come spesso mi è accaduto con i match dell’Inter, per uno che tifa i colori di una squadra come una malattia stando a una media di 500km di distanza (non sempre) dalla città di riferimento. Allora eravamo una squadra indecifrabile. Come raramente lo siamo stati. Era l’anno della conferma di Andrea Stramaccioni in panchina, l’anno folle (ma pensandoci bene quale non lo è stato) in cui volevamo essere nuovi e giovani, ma poi rinunciammo a Coutinho per aggrapparci a Schelotto, dove mischiavamo le fragili certezze del Triplete (Samuel, Cambiasso e Diego Milito) con un mix fallace e improbabile di novità (Juan Jesus, Cassano, Ranocchia e, successivamente, un raffermo Tommaso Rocchi). Eravamo un po’ come quella bibita, spesso artigianale, metà birra e metà gassosa, in voga negli anni ’80 tra la gente abituata alla fatica, muratori, carpentieri. Potevamo essere rinfrescanti e frizzanti, se consumati subito, o sgasati e imbevibili se lasciati sotto il sole. Di sicuro non eravamo Champagne.
Ma nonostante questo li battemmo. Con una testata di Samuel al terzo minuto su calcio di punizione di Cambiasso.
Poi fu frenesia (Milito, che dio lo abbia in gloria, sbagliò due reti nel giro di trenta secondi dopo regalo generoso di Abbiati), alienazione (quel gran burlone di Nagatomo, sempre lui, ci lasciò scelleratamente in dieci solo per vedere l’effetto che faceva), sofferenza (Handa era in serata) e, infine, illusione (a gennaio scoppiammo come una bolla di sapone).
Non eravamo un’opera d’arte, ma fu dolce poterlo immaginare.
Domenica siamo nelle medesime condizioni o quasi.
Con una squadra indecifrabile e a tratti impalabile, un allenatore (il quarto in una stagione) alla sua prima volta e con un’idea di formazione simile al suo predecessore illustre (i giocatori alla fine sono sempre quelli), una società che, come Ponzio Pilato subito dopo l’abluzione, si ripresenta tersa e purificata.
La partita contro il Milan non sarà bella. Ma nonostante i punti di differenza in classifica e una spropositata critica a favore possiamo batterli. Possiamo ricoprire di calcestruzzo quello che resta ancora della nostre magagne. E sperare che, col tempo, diventi arte.
@roberto
“Segna Rolando”
Inter – Milan 1-0, 22 dicembre 2013
È l’ultima partita prima di Natale. Mazzarri è in panca, Guarin tiene le chiavi del centrocampo e Campagnaro è il pezzo pregiato della difesa. Sembrano secoli fa, come spesso succede per l’Internazionale, ma sono passati solo tre anni.
Allo stadio c’è un umido che ti impregna il giaccone e le ossa, al punto che la calzamaglia sotto i jeans non serve a nulla.
Sono seduto al mio vecchio posto da abbonato secondo arancio di fronte alla panchina dell’inter. Dietro di me c’è un gruppo di amici, sempre i soliti tra cui spicca, Giuseppe. Giuseppe è sagace e fa sempre le battute giuste, al momento giusto, ma non le fa per far ridere qualcuno, le fa per sfogarsi della rabbia e della nenia che lo attanagliano. Giuseppe ha una quarantina d’anni, ma da sei mesi la ragazza lo ha lasciato ed è tornato a vivere con la mamma. Lo sappiamo perché è da settembre che negli intervalli delle partite ragguaglia gli amici sulla nuova condizione di single “Ragazzi comunque vivere con la mamma non fa poi così schifo. Tutto stirato e cibo sempre pronto”. Giuseppe non ama Mazzarri ma soprattutto detesta in maniera viscerale un giocatore: Eder. Lo odia con tutto il suo cuore, curioso è il fatto che Eder non sia un giocatore dell’Inter, milita ancora nella Sampdoria e di un suo passaggio alla nostra squadra non se ne parla da mai.
Ma il peggior insulto che lui possa fare ad un giocatore è urlargli: “Sei peggio di Eder!”. L’ho pensato tanto quando lo scorso Gennaio l’oriundo è arrivato ad indossare la maglia dell’Inter, l’ho molto pensato.
La partita è una delle più noiose di sempre. I giocatori trotterellano in campo, nessuno ha il coraggio di prendere in mano la partita, nel primo tempo l’arbitro non ci concede un rigore evidente su Rodrigo che si danna come ha fatto per tutta quella stagione.
Il resto è immobilità e gelo.
Verso la metà del secondo tempo, un calcio d’angolo per noi, salgono le nostre torri e per primo si fa largo Rolando. Giuseppe alle mie spalle lo vede e dice la frase per la quale lo amerò per sempre “Segna Rolando, ragazzi! Lo sento! La mette Rolando di testa! E giuro che se segna Rolando, lancio le chiavi di casa in campo. Voglio suonare il citofono a mia madre per tutta la notte!”
Quando il ritmo e l’andamento della partita sfiorano ormai il ridicolo, il divino Jonathan dalla fascia la mette a casaccio in area, Guarin la corregge verso al centro e Palacio col tacco la mette nell’angolo lontano rispetto ad Abbiati.
Io perdo la voce in trenta secondi e pregusto il Natale dolce e sereno in attesa della solita sconfitta invernale contro la Lazio, il giorno della befana per mano di Klose.
Pagherei per avere dei derby così, sempre. Il gioco non è il nostro forte. Il nostro forte è fare la cosa più stramba, assurda e complicata e ogni tanto portarsi a casa una gioia che ci scalda un po’ il cuore.
Per amore di Giuseppe e dell’Internazionale spero che il derby lo decida Eder.
@matteo
La mia foto preferita
La prima volta che ho visto il derby dal vivo sono tornata a casa barcollando. Ero stata schiaffeggiata sei volte, di cui due da Comandini. C o m a n d i n i.
Oh, non è stata colpa mia (il mio analista continua a ripetermelo) ma da allora preferisco guardare la partita accasciata sul divano. La codardia è un sentimento altrettanto comodo.
Questo per dire che io un ricordo bello da condividere con voi non ce l’ho ma ho una foto, la mia preferita.
Io nostalgica lo sono sempre stata, provo nostalgia persino per il panino che ho mangiato a pranzo, eppure mi dà quasi fastidio quando quest’immagine viene utilizzata per ricordare quel famoso calcio-che-non-c’è-più. Mi mancano sia Ronaldo che Maldini ma quando li vedo qui immortalati mentre si contendono molto più di un pallone, quando leggo i ricordi di derby vicini e lontani mi rendo conto che l’unica cosa che realmente conta è che da quasi un secolo, due volte l’anno, la magia si compie sempre e a prescindere da chi indossa quelle maglie.
Il calcio è ancora qui, è ora, è domani alle 20.45 quando le due curve di Milano si guarderanno in faccia per la trecentoquattresima volta con il fiato sospeso.
@ale
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