Quel Verona che sembrava Robin Hood e il dialetto dell’Osvaldo

di Luca Paladini

No, non è per le affinità fin troppo poco elettive delle curve, è per altro che se penso al Verona mi viene male.
Perché sì, perché il loro anno di gloria ha coinciso con una delle Inter che ho amato di più.
Quella che partiva con Zenga e finiva con Rummenigge, passando per la classe di Brady e il cuore di Pinna Marini.
Era pure l’ Inter di Enrico Cucchi, pace all’anima sua.
Era forte quell’Inter ma il Verona lo era pure di più.
Un campionato nella scia, senza perdere con loro nè all’andata nè al ritorno, quasi sempre dietro a inseguire per poi finire in modo “interistissimo”, terzi con il Toro che ci passa davanti di un punto alla penultima giornata.
Perché pure quel Torino con Gigi Radice in panchina e Junior in campo, era tanta roba.
Capivo che c’era una squadra in missione per conto di tutte le provinciali della storia, che vedevano in quel Verona un motivo di riscatto esistenziale.
Mi era evidente quanto facesse bene alla narrazione del nostro calcio, la favola di Cenerentola invitata al ballo e capace di mandare a casa tutte le altre tipe ben più altolocate, però allora doveva succedere in una delle tante stagioni in cui già a novembre ci ritrovavamo a 46 punti dal vertice e al dodicesimo cambio di allenatore.
Invece no, quell’anno eravamo forti, non belli, ma gnucchi, tosti, cazzuti, come i polpacci di Kalle.
Era una squadra senza fronzoli ma si lasciava guardare e amare, con i gol di Spillo e la rocciosa resistenza di due ragazzi che già promettevano molto bene di nome Beppe e Riccardo.
Ma quel Verona non perdeva mai e ti faceva fare pure la figura di quello reazionario, perché non tifavi per Robin Hood.
Come se noi poi si fosse lo sceriffo di Nottingham.
Quel Verona era guidato in modo magistrale da un uomo della Bovisa, che si presentava alle conferenze stampa che pareva appena uscito da un consiglio di fabbrica della Breda, giusto per aumentare il mio senso di colpa, che tifavo contro quel miracolo proletario in corso.
Quel Bagnoli, che come Pierino Fanna e Luciano Marangon, arrivarono poi sulle nostre amate sponde, senza brillare.
Ricordo, nella sua parentesi nerazzurra, delle interviste con risposte date in milanese, che mi mandavano in visibilio, emozioni etniche mai più registrate fino a quel “non sono mica un pirla”, di uno che la Bovisa manco sapeva dove fosse.
Ecco, per me ogni Verona-Inter è un salto all’ indietro a quella storia li.
L’ ultimo scudetto fuori dai sacri confini dei grandi club, un Leicester
ante litteram, e un ragazzino troppo tifoso per non gufargli contro.

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