Mi ritorni in mente (la Juventus raccontata da noi)

E così ci siamo. Arriva presto come due anni fa, arriva quando siamo fragili e abbiamo paura dell’uomo nero, dell’uomo bianconero. Inter – Juventus è la storia di tutte le nostre ansie e di tutte le nostre gioie, un generatore automatico di emozioni, di esplosioni di gioia, di rabbia e di qualcosa di molto, troppo vicino all’odio calcistico (e non). Noi de Il Nero e l’Azzurro non abbiamo voluto esorcizzare le paure né sfogare la rabbia, solo tentare di spiegarvi cosa significhi per ognuno la partita contro la Juventus, che sia in casa o fuori. Ecco i nostri ricordi, aggiungete i vostri

Un anarchico, a sinistra

(Cristiano Carriero)

Se mi chiedete chi ha vinto Sanremo nel 2002, state tranquilli che vi risponderò “Clarence Seedorf“. Giocatore incredibile, di un’intelligenza superiore, a volte un po’ svogliato. Il mio amico Michele Dalai ha confessato di essere andato di nascosto a vedere il Milan, pur di ammirarlo ancora. La sera del 9 marzo 2002 l’Inter ospita la Juventus mentre su Rai1 va in onda la finale di Sanremo. Cuper sceglie di giocare con Vieri e Recoba davanti e Seedorf nel ruolo di esterno sinistro. Non è un mistero che l’allenatore argentino abbia più volte ribadito alla società che il suo gioco non può svilupparsi efficacemente senza due esterni di ruolo. Passi per Sergio Conceicao a destra, a sinistra di solito gioca Guly, ma per una notte ci prendiamo il lusso e il brivido di schierare Clarence. Che è in una di quelle serate in cui ha voglia di giocare. Al 6′ è proprio lui, dal limite dell’area, ad azzeccare un diagonale forte e arcuato che scavalca Buffon. È uno di quei gol che fanno impazzire San Siro, perfino Toldo, con la sua calzamaglia, corre ad abbracciarlo. Uno a zero, e un po’ ci pensi che “forse è l’anno buono“, ma non lo dici. La Juve sa che ogni volta che conquista palla deve aggredire la fascia sinistra nerazzurra, quella di Gresko. E infatti al 13′ Zambrotta ubriaca lo slovacco e recapita al centro un cross sul quale i 55 centimetri di elevazione da fermo di Cordoba sono lo sgabello di un nano nello spazio aereo di Trezeguet: colpo di testa, pareggio e pallino alla Juve, che comincia a fare la Juve. L’Inter soffre ma tiene botta, grazie soprattutto alla diga costruita da Di Biagio e Zanetti. Cristiano, perché Javier vive la fase della sua vita in cui gioca da terzino. Mentre Benigni sta per salire sul palco dell’Ariston per uno degli spettacoli più attesi dell’anno, Tudor prende l’ascensore, supera Materazzi e porta la Juventus in vantaggio. Mancano 15 minuti, e la partita sembra finita. “Gira su Benigni, tanto lo sapevamo che andava così“, mi dice Gigi, e per un attimo lo ascolto anche. Passa qualche minuto; rido, sdrammatizzo, mi incazzo con Nedved che cade a terra ogni volta che cambio canale sulla partita. Fino a quando, un olandese sacrificato a sinistra per tutta la partita decide di convergere anarchicamente verso il centro. Come se dicesse: “Adesso basta mister, faccio quello che pare a me“. Cuper tira l’ultima boccata della partita alla sigaretta, la butta a terra, osserva l’improvvisata olandese inerme, quasi infastidito. È una danza, quella di Seedorf. In quattro passi si porta in posizione centrale, si fa illuminare dallo spirito di Haan e dipinge un quadro d’autore che vede Buffon inarcarsi fino al sette, nel vano tentativo di proteggere la porta. Non è un pareggio.

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È estasi. Uno dei dieci abbracci più vigorosi della mia vita da tifoso. Forse della mia vita intera. È la Juventus ripresa all’ultimo respiro. Non è la prima volta, e non sarà l’ultima, ma quel tiro di Seedorf è un altissimo momento di interismo anarchico. Anarchico come Seedorf, che infatti Cuper rimpiazzerà con Kily Gonzales. Ma questa è un’altra storia.

***

Famolo strano, ma famolo
(Roberto Rossi)

Si può?
Sì, si può.
Lo abbiamo già fatto. E io me lo ricordo.

L’anno domini era il 2003. Il mese novembre. Il giorno 29. Lo Stadio Delle Alpi era la cornice. Dalla nostra parte la vaghezza di un inverno carico di incognite con la panchina affidata ad Alberto Zaccheroni. Dalla loro l’arroganza dell’imbattibilità casalinga lunga 16 giornate e la superbia di Marcello Lippi e dei suoi sette punti di vantaggio accumulati in appena dieci partite. Nel mezzo la promiscuità di alcuni tifosi interisti ritrovatisi, disperati e sconosciuti, all’interno di un bar di via Fabio Filzi nei pressi della stazione Centrale. Tutti con mezza bionda in mano, consumazione minima. Io con loro.

Fuori Materazzi, Vieri, Coco e, all’ultimo soffio, anche Cannavaro (che forse era rimasto a Milano a parlare al telefono con Moggi). Fuori anche Emre e Recoba, in panchina acciaccati, la nostra improbabile formazione era composta da Toldo fra i pali, Gamarra e Cordoba come baluardo di difesa, l’indio Almeyda (sobrio) e Cristiano Zanetti in mezzo al campo, Javier Zanetti e Pasquale esterni. In avanti Julio Ricardo Cruz, come punta centrale, con ai lati la palla impazzita Oba Oba Martins e l’indecifrabile Van Der Meyde. Non proprio roba da palati fini. Ci si presentava a una cena di gala (Thuram, Trezeguet, Del Piero, Nevdev, Zambrotta, Camoranesi) vestiti per una gita fuori porta.

Nella bettola prendeva aire il sacrificio, il supplizio, il tormento. I tifosi “flagellanti” si stavano già scudisciando la schiena nuda, i “martiri” si erano già immolati a difesa dell’allenatore sotto i colpi di urla e bestemmie dei “prevaricatori”, quelli che già sanno come e perché e “cazzo, toglilo che non corre”.

Poi, all’improvviso, la luce.

Da una selva di uomini, crociati e stinchi, schizza, a gambe curve dietro a una palla arrivata chissà dove, Oba Oba. Lo ricordo felino e bugiardo mentre si apre un varco verso la porta di Buffon. Prima di toccare la palla per una seconda volta, e mandarla chissà dove, Montero gli amputa la gamba destra sotto il ginocchio, ma fuori dall’area. Punizione. “Lo fa” mi disse il mio vicino vedendo Julio con la palla fra le mani. Lo fece.

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Una randellata sul palo del portierone. Nel bar ci abbracciammo senza distinzioni di casta. Prendemmo coraggio e un’altra mezza, a Torino diventammo leoni. Cruz ne mise dentro un altro, dopo un doppio tiro, Oba Oba dopo un doppio scotch. Montero firmò l’1-3.

Dunque, si può.

Anche se sfavoriti, sfilacciati (per ora) e acciaccati (nell’animo), lo possiamo fare.  Famolo, famolo strano, ma famolo. C’è riuscito persino Oba Oba. Basta crederci o, per lo meno, avere un litro di birra a portata di mano.

***

Come un colpo di biliardo, Juan Sebastian Veron
(Tommaso De Mojana)

La vittoria in coppa Italia era stata festeggiata oltremodo; certo, non se ne alzava una da sette anni, ma più che altro per le vie della città si erano viste sventolare bandiere reds, a celebrare l’impresa più gradita del maggio di quell’anno.

Oggi scorrere le formazioni aiuta fino ad un certo punto: si giocava a Torino, loro freschi vincitori del terzo scudetto in quattro anni mentre noi cercavamo faticosamente un’identità, un’uscita dallo psicodramma post cuperiano e dai 73 pareggi di fila dell’anno precedente; l’arbitro, manco a dirlo, De Santis.
Staccarsi dalla movida di fine estate per andare a vedere la partita fu oggetto di scherno da parte dei compagni di vacanza non tifosi, o di altre religioni: effettivamente portarsi a casa la più figa del locale la sera prima era apparsa un’impresa più alla portata. E comunque non ci era riuscita.

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Ma, si sa, noi ci si crede sempre e comunque, e poi Adriano ancora consumava cachaça in maniera limitata, e Martins faceva venire il mal di testa ai difensori avversari (prima di venirne afflitto lui stesso per sempre).
Sta di fatto che quella sera di agosto a Torino piove che dio la manda e, a vedere dalle giacche in panchina, fa pure un gran freddo. Sta di fatto che annullano un gol buono ai gobbi. Contro di noi.
(Ancora non sappiamo che esagereranno con le contromosse, ma questa è un’altra storia…)

Non ho mai perdonato il divino Juan Sebastiàn per aver deliberatamente sacrificato una qualificazione alle semifinali di Champions solo perché voleva uccidere Sorin, ma quella sera la decide lui con un colpo di biliardo al minuto 6 del primo tempo supplementare, su assist dell’Adriano pre Marlboro Rosse che fu.
Quella sera Julione e the Wall indossarono la loro prima maglia nerazzura.
Quella sera non lo sapevamo, ma il vento sarebbe girato di lì a poco.
Ci sperammo e andammo a fighe fiduciosi, tornando a casa soli e ubriachi come sempre.
“Di lì a poco”, abbiamo detto.

***

Vorrei incontrarti tra cent’anni
(Michele Dalai)

È finita. La partita è finita da quasi due ore ma ci tengono ancora dentro. Caldo, coda, dolore, incredulità, rabbia, indignazione, sfottò. Violenza no, quello che è successo in campo va oltre il concetto stesso di violenza, la scavalca e ci annichilisce tutti. Siamo stanchi ma non si esce. La Juventus ha vinto, il 26 aprile 1998 è il giorno che le consegna virtualmente (come dicono quelli che non sanno bene cosa significhi virtualmente), lo scudetto e noi da lassù, dal settore ospiti abbiamo assistito a qualcosa di incredibile. Tutta la panchina in campo, Simoni che manda a fare in culo l’arbitro mentre la Juventus se ne va in contropiede e l’arbitro medesimo le assegna un rigore che è come un ceffone, umiliante e terribile perché ci da il senso esatto della nostra impotenza, dell’inutilità del tutto. Ronaldo e Iuliano sono ancora impressi nella retina, il negativo dell’immagine del loro scontro che solo il coraggio della malafede di Ceccarini può considerare fortuito è fermo nel tempo e nello spazio ma qualcosa mi scuote, sono costretto a registrare il fatto che la Juventus ha un rigore a favore. il resto è un incubo. Vincono loro ma è una delle partite più brutte e piene d’odio cui abbia mai assistito. Io non odio, di mio non amo praticare l’odio (che sarebbe una strana contraddizione, che è una strana contraddizione). Ma sono stanco e così guardo i miei due amici, disperati e increduli come me, e lo dico.

Se all’uscita, se nel parcheggio dovessi mai trovare un giocatore della Juventus lo ucciderei

Loro nemmeno mi ascoltano. È una terribile coglioneria e mentre lo dico me ne pento, mi vergogno. Poi ci fanno uscire. Le strade sono vuote, in terra ci sono cocci e cartacce che rotolano come palle di fieno nel deserto. Abbiamo parcheggiato lontano e la camminata è un calvario. Cupi, silenziosi e a testa bassa. Non ricordo di aver detto quello che ho detto finché non troviamo la macchina, che è nel piccolo parcheggio di un supermercato chiuso. In quel momento lo vedo, lo riconosco. Arriva con una station wagon bianca, ma una di quelle che tutti ci potremmo permettere. Forse una Croma, ma la memoria mi tradisce. Scende dalla macchina, è Dimas Manuel Marques Teixeira, noto semplicemente come Dimas. 

Se all’uscita, se nel parcheggio dovessi mai trovare un giocatore della Juventus lo ucciderei

Dimas mi sorride. In macchina con lui c’è la moglie e forse ci sono i figli, altro dettaglio che non ricordo bene. Dimas è nato a Johannesburg ed è cresciuto in Portogallo. Nazionale, buon terzino sinistro quel giorno è stato in panchina a godersi lo spettacolo di una delle più grandi ingiustizie calcistiche degli ultimi anni, ma non sembra curarsene molto. Aspetta qualcuno. Il dilemma etico non è semplice, non in questo caso. Uccidere qualcuno è una cosa molto maleducata, la società tende a condannare quel genere di comportamento. Però tutto sembra costruito e pensato da un ottimo sceneggiatore.

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Delitto, il furto in campo, Castigo, l’omicidio di Dimas nel parcheggio. Nonostante sia una punizione un po’ severa per il panchinaro Dimas, qualcosa mi dice che se l’è cercata. Poi succede. Dall’altro lato del parcheggio sbuca un ragazzo africano, ha ancora indosso la pettorina d’ordinanza del venditore di bibite dello stadio e porta a tracolla il suo vassoio, vuoto. È stanco, più di me e più di Dimas, che in effetti tra i tre sembra quello che ha avuto la giornata migliore. I due si salutano, poi Dimas apre il baule della macchina e tira fuori una sua maglietta, forse proprio quella che ha indossato in panchina. Gliela passa e i due si abbracciano, forte. Quando si separano Dimas lo guarda e gli dice Boa Sorte, lo dice con grande dolcezza. Sorride, sorride anche a me e sale in macchina. Io penso

Se all’uscita, se nel parcheggio avessi incontrato Dimas e l’avessi ucciso ora mi sentirei male, mi sentirei molto male, mi sentirei un perfetto coglione

Che poi è quello che capita a chiunque ragioni così di calcio. Salgo in macchina, la strada non è lunga ma tutto sembra lentissimo e triste. Non c’è squadra che detesti più della Juventus, con tutto quello che rappresenta. Non c’è giocatore cui fuori dal campo abbia voluto bene più che a Dimas in quei pochi secondi. Il calcio ci trasforma in bestie, in subumani. Grazie Manuel Dimas, peccato aver giocato in quella squadra lì

***

L’anno dopo
(Matteo Caccia)

E’ il 2011 anno che non riesco a identificare in nessun altro modo se non con la locuzione “l’anno dopo”. In realtà però è già passata una stagione e forse un secolo dal 2010, abbiamo perso lo scudetto 2010-11 nel derby contro il Milan dopo una rincorsa commovente e da un mese ci siamo liberati di uno degli errori più grossi commessi per la panchina, parlo di quel gobbo di Gasperini, che durante gli allenamenti estivi si aggirava tra i ragazzi con gli occhi di chi si domandava: “Ma sto davvero allenando l’inter, come cazzo ho fatto a fregarli così?”. Sulla panchina siede Ranieri che ancora lungi dall’essere l’anziano re d’Inghilterra ha la solita faccia da eterno secondo.

Io sono fidanzato da poco e non vedo l’ora di condividere con la donna che amo tutte le esperienze che mi rendono quello che sono, ecco perché il 29 ottobre, un bel sabato sera milanese la porto a vedere Inter –Juventus. La Juventus è quella squadra che ci ha fatto divertire per anni a suon di settimi posti e partite buttate nel cesso in pieno stile Inter ma sulla panchina non ha più Ferrara & C. ma un allenatore trapiantato (di capelli, non di cuore) che sembra un tarantolato. Ho preso dei biglietti al secondo anello arancio, un po’ defilati. Per lei è la prima volta a San Siro ed è emozionata, io sono nervoso come il garretto di un puledro al palio di Siena ma fingo tranquillità.

Siamo seduti nella prima fila quella bassa davanti alla balaustra, passiamo il tempo a fare il ballo del qua qua con la testa per vedere tra le sbarre di ferro, attorno a noi qualche abbonato e gente che come noi ha preso il biglietto e che fino al calcio d’inizio sembrano persone per bene. Per i gobbi giocano quelli di oggi Buffon; Lichtsteiner, Barzagli, Bonucci, Chiellini; Marchisio, più i defunti Vidal, Vucinic, Pepe e Matri. Per noi (tenetevi forte) in porta Castellazzi, quelli della grande Inter del triplete più Nagatomo (si, già lui) Pazzini e Zárate che viene sostituito da Castagno (oggi vende frutta e verdura all’ingrosso a Panama).

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Partiamo e dopo 12 minuti Vicinic piglia una palla vagante in mezzo all’aera e la butta dentro. Gli animi iniziano a scaldarsi, il padre di famiglia seduto accanto alla mia ragazza durante una punizione calciata da noi al limite dell’area con calma olimpica indicando i giocatori bianconeri in barriera esclama:

“Guardali oh! Sette stronzi in fila ( + espressione irripetibile che evoca un noto personaggio bibblico+animale da cortile)!”

La mia ragazza mi guarda attonita, io sorrido, ma al 24esimo Maicon fa una di quelle incursioni i migliori tra noi si sognano ancora oggi e infila una sassata sotto la traversa.

Pareggio.

Mi lancio sulla balaustra urlando cose che a confronto il padre di famiglia di pochi minuti prima era un novellino, quando dopo 5 minuti mi sono calmato, mi giro e vedo la mia fidanzata pallida e spaventata che mi osserva come se avesse visto nell’uomo che ama un lato da esorcista che non aveva mai visto. Il fatto che dopo cinque minuti Marchisio riporti in vantaggio la squadra d’oltre Ticino quasi non mi interessa più perché devo ricucire un rapporto stroncato sul nascere.

Sono passati cinque anni e, nonostante tutto, le amo sempre tutte e due.

***

L’indigestione
(Roberto Torti)

E’ l’11 novembre 1979 e ho 15 anni, 10 mesi e 26 giorni. Fa freddino ma neanche troppo, tra il mio culo e i gradoni nudi dei distinti dietro la porta (oggi primo anello blu) c’è un bel cuscino nerazzurro e tra il mio stomaco e il mio esofago ci sono le farfalle perchè si gioca Inter-Juve. Cielo nuvoloso, spalti gremiti, arbitra il signor Michelotti. Alle ore 14,30 la Juve scende in campo con Zoff, Cuccureddu, Cabrini, Furino, Brio, Scirea, Causio, Tardelli, Fanna, Verza e Marocchino, cioè un mix tra monumenti e giovani speranze. L’Inter è l’Inter di Bersellini (Bordon, Canuti, Baresi, Pasinato, Mozzini, Bini, Caso, Marini, Altobelli, Beccalossi, Muraro), un’Inter giovane e frenetica, molto lombarda e molto canterana, gente di cuore e facce di tolla. Primo tempo 0-0, l’Inter attacca dall’altra parte. Anzi, non attacca: per mezz’ora non vede palla e io di qua mi prendo un sacco di spaventi. Nel secondo tempo l’Inter attacca verso di me, sotto di me. Attacca davvero, e subito. Dopo neanche tre minuti Scirea stende Altobelli: rigore, gol.

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Passano altre due minuti, cagata clamorosa della Juve in difesa, Spillo ringrazia e raddoppia. Non fa più freddo, c’è un’aria stracarica. Poco prima della mezz’ora li ammazziamo in contropiede, Spillo la serve comoda per Muraro, 3-0. Cinque minuti dopo il colpo di grazia, ancora Spillo, 4-0. In rapporto con la qualità dell’avversario, resta la mia più bella indigestione a San Siro. Il 27 aprile seguente sarei stato lì, stesso posto, per il gol-scudetto di Mozzini in Inter-Roma. Abbracciandolo, romperò gli occhiali a mio zio.

6 thoughts on “Mi ritorni in mente (la Juventus raccontata da noi)

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  1. avevo iniziato a scrivere tante cose ieri ma poi a forza di dilungarmi mi si è improvvidamente cancellato il commento.
    e niente che dire? l’inter raccontata da noi? è quella squadra che si finge morta (sì credo che il genio di de boer abbia pianificato la sconfitta con gli israeliani per gobbarci – variante ad hoc) e poi quatta quatta risorge e ti secca.
    siete lo scorpione che non perde la sua natura. non che vi si fosse chiesto un passaggio per attraversare lo stagno. pensavamo stoltamente che ci avreste traghettato alla prossima di campionato addirittura aggratis. ovvio che ci sbagliavamo!

  2. avevo iniziato a scrivere tante cose ieri ma poi a forza di dilungarmi mi si è improvvidamente cancellato il commento.
    e niente che dire? l’inter raccontata da noi? è quella squadra che si finge morta (sì credo che il genio di de boer abbia pianificato la sconfitta con gli israeliani per gobbarci – variante ad hoc) e poi quatta quatta risorge e ti secca.
    siete lo scorpione che non perde la sua natura. non che vi si fosse chiesto un passaggio per attraversare lo stagno. pensavamo stoltamente che ci avreste traghettato alla prossima di campionato addirittura aggratis. ovvio che ci sbagliavamo!

  3. 3 dicembre 2000. La domenica prima un difensore molto stronzo mi ha spaccato i legamenti del ginocchio destro quindi vado allo stadio con un bel gesso su tutta la gamba. Fa un freddo porco, le mani mi fanno male per le stampelle e non so quanto tempo ci metterò per salire la rampa che mi porterà al secondo anello.
    Un amico ha l’intuizione, commiserarmi davanti alle scale che portano al primo arancio. Funziona, l’addetto all’ingresso si commuove e ci lascia passare. Vedrò la parita al primo anello seduto sui gradini perchè la gamba non ci sta, troppo poco spazio tra le file di seggiolini.
    E’ l’Inter di Tardelli, quella che qualche mese dopo….vabbeh, lo sapete…..
    Dopo 10 minuti la Juve è già 2-0 con Trezeguet e Zidane. E’ la classica partita che temi possa finire in goleada, anche perchè a sinistra gioca Macellari e da quella parte la Juve fa quello che vuole ma sbaglia perecchie occasioni per chiudere l’incontro già nel primo tempo.
    Proprio dopo l’ennesima cappellata dell’esterno non mi tengo più, scatto in piedi e (non so come ci sia riuscito) mi lancio verso la balaustra. Lo vedo a pochi metri da me, ha la faccia sconvolta. Si vede che non ci sta capendo niente. E parto. Parto con una raffica di insulti talmenti forte che la porzione di settore vicino a me si ammutolisce, Macellari si gira e mi guarda. Mi sta sentendo allora. E via, continuo, più forte.
    Finito lo sfogo mi rendo conto che la gente mi guarda, sono sceso di corsa dai ripidi gradini dello stadio e sono in piedi sulla balaustra con una gamba rotta. Sono un miracolato.
    Il vero miracolo poi lo fece l’Inter riuscendo a non perdere quella partita. 2-2. Blanc e soprattutto Di Biagio riuscirono nell’impresa di farmi dimenticare di avere il gesso per altre due volte quella sera.
    Di Macellari non sentii più parlare.

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