L’Osvaldo, la Bovisa e il calcio perbene

di Paolo Maggioni

È quasi Ferragosto, sarà per via del caldo, della città vuota, del nemmeno un prete per chiacchierar, ma al tavolo della pizzeria egiziana che a pranzo offre menù completo a dieci euro – caffè compreso,  dice Ahmed per invogliarti, e avrà le sue ragioni – sul pizzino che mi rigiro nelle mani da mezz’ora ci sono solo tre nomi: Ermanno Olmi, Osvaldo Bagnoli, Paolo Cognetti. Sono loro, i primi tre della Bovisa che mi sono venuti in mente. Legati tutti ad un destino comune: avere il cuore della metropoli a portata di tram, ma aver trovato il successo lontano, confusi poi per bergamaschi, veronesi, valdostani. Deve avere qualcosa di così intimamente identitario, la Bovisa, da convincerti a lasciarla per cercare il mondo solo un po’ più in là, lontano dagli scheletri di vecchie fabbriche, della stazione e dalla filovia, da una nebbia che in certe stagioni ritrovi solo tra questo dedalo di viuzze. In una c’è un giardinetto pubblico cinto da un muro perimetrale liberty, e una scritta, Arcadia. I primi studios italiani, racconta la leggenda. Doveva essere inizio ‘900 ma perfino il cinema, per diventare grande, aveva deciso di lasciare la Bovisa.

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Mangiando penso all’Osvaldo, alla stranezza con cui guarderebbe questa periferia tutta kebab e call center, culla di una nuova migrazione, di una Babele di lingue e sapori, di una milanesità resistente in qualche insegna, nei piatti, in un modo di rapportarsi col centro un po’ snob e un po’ intimidito che porta alcuni indigeni a distinguerla in sottoquartieri: Dergano, Machiachini, Università. Passeggiandoci oggi, l’Osvaldo direbbe forse “Rob de matt”, come il nome di un ristorante bellissimo che sta crescendo proprio in mezzo al quartiere, casualmente a venti passi da dove venne rapito Abu Omar, perché anche la grande storia è passata di qui: il ristorante offre una prospettiva di lavoro a persone ai margini, con problemi psichici, ma anche a rifugiati ed ex carcerati. Una bella storia.

Ritorno a quel pizzino che mi balla tra le mani e rifaccio un veloce censimento. Ecco, l’Osvaldo me lo ricordo essenzialmente per due ragioni.

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La prima: nelle interviste tv parlava milanese, e mi sembrava di vedere un nonno buono, più vecchio dei suoi 59 anni, serafico, ironico. A chi gli chiedeva di strane miscele calcistiche, di ripartenze, di ali tornanti, seconde palle e sovrapposizioni, l’Osvaldo rispondeva sempre e solo: “El terzin faga el terzin, el centravanti faga el centravanti”. Cosi, come a ritrovare una dimensione, un posto al mondo, che il calcio è roba semplice e se sei più scarso c’è un’arma sola, bellissima, che si chiama contropiede. Roba vecchia, diceva la critica. Quando comprammo Sammer, poi Jonk e Bergkamp -Bagnoli non legò con nessuno di loro, destinati a carriere importanti lontano da San Siro-, molti gli imputarono scarsa modernità e duttilità. L’Osvaldo andava per la sua strada, alfiere di un calcio antico, pratico, a chilometro zero. Potremmo chiamarlo, senza offesa dell’Osvaldo, slow foot: lo stesso con cui il suo Genoa aveva espugnato Anfield, che dev’essere una specie di Bovisa ma con molta più birra.

La seconda ragione: mi ricordo dell’Osvaldo perché la sua Inter stava strappando lo scudetto al Milan di Capello. Quello degli Invincibili, che fece sentire noi bambini interisti piccoli martiri, abituati a soffrire subito mentre i vicini di banco esultavano per l’ennesima vittoria rossonera.

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Andò cosi, più o meno. Campionato 92-93 iniziato male. Milan stellare, poi un po’ distratto, forse dalla Coppa Campioni. Noi che siamo davvero una squadra operaia, e all’Osvaldo la definizione suona tutto fuorché un’offesa, recuperiamo punti giocando un calcio semplice, fisico, affidandoci ai lampi di Shalimov, agli strappi di Schillaci e Sosa, alla vecchia classe di Berti, Zenga, Bergomi, Ferri, e degli altri reduci dello Scudetto dei Record. Insomma, a poco dalla fine, siamo lì a giocarcela contro ogni aspettativa.

Tutto questo è un ricordo su VHS, perché prima di Youtube c’erano solo loro, le videocassette. L’immaginario, soprattutto erotico e sportivo, di chi è nato negli anni ’80, dipende essenzialmente da quei nastri che giravano di casa in casa, di salotto in salotto, di proiezione clandestina in proiezione clandestina. Noi ragazzini correvamo a registrare i rarissimi documentari che celebravano gli scudetti, o i grandi campioni, e ce li passavamo fino a consumarli. Uno era sui grandi derby Inter – Milan, e ricordo di aver pensato un sacco di volte che se li avessi riguardati a lungo -tanto a chi fregava più- avrei potuto vedere cose mai successe: Suarez che segna un rigore decisivo e non lo tira sul palo, nel derby che ispirò la moviola, era diventato il mio frame preferito, come una specie di risarcimento alla giovinezza di mio padre. Puntualmente, schiacciando play, la palla finiva sul palo e tornava indietro.

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Stessa cosa ogni volta che riavvolgevo il nastro per Inter-Milan del ’93. La partita da vincere per completare la rimonta. Ricordo una riproduzione della Madonnina in Curva Nord, l’Osvaldo che arriva stampellato allo stadio e che se la guarda in tribuna, Nicola Berti come una furia che incorna e segna l’uno a zero, altre occasioni nostre, l’assedio del Milan, Mirko Taccola inserito a dare una mano alla difesa, Bergomi che esulta per una parata di Zenga che poco dopo prende per il collo Lentini, urlandogli di smetterla di tuffarsi. Come un muro di gomma, ci picchiano forte e le respingiamo tutte, fino a quando Ruud Gullit trova la palla appena dentro l’area, tutto spostato a destra, la tocca di controbalzo, imparabile, con la classe imperturbabile e il destino immutabile di chi non sta solo segnando, ma sta anche regalando un enorme dispiacere.

L’avrò rivisto cento volte, quel gol. Poco prima che Gullit – con i dreadlocks corti, a caschetto- toccasse quella palla per bruciare i nostri sogni, mettevo il nastro in pausa e pregavo sottovoce, come un mantra: “Tirala fuori, Ruud. Che cazzo te ne frega. Ti venderanno comunque e almeno ci regalerai un sogno.” Ci credevo davvero, ci speravo, ma tutte le volte vedevo il nastro ripartire e non raccontare niente di diverso. La palla si infilava in quel pertugio, quei dieci centimetri impossibili tra la manona di Zenga e il palo. 1-1. Morta lì. Milan campione, noi dietro quattro punti, a masticare rimpianti. Un’ingiustizia. Per noi tifosi, per la letteratura della remuntada. Per l’abnegazione dell’Osvaldo. Per quella sua regola precisa, che -raccontava Davide Fontolan- lo spingeva ad assegnare ruoli e numeri dei giocatori già ad inizio stagione, stabilendo gerarchie, ma anche responsabilizzando titolari e riserve.

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Ripensandoci oggi, trovo curioso che negli anni del Milan stellare, l’Inter di Pellegrini non abbia sfigurato vincendo scudetto e Coppe Uefa con due allenatori milanesi e milanisti, Giovanni Trapattoni e l’Osvaldo, appunto. Pratici, all’antica, scaltri e coraggiosi. Come una specie di argine, l’Inter era diventata ancora di più una squadra contro, di opposizione, in un pallone che stava cominciando a declinare in spettacolo televisivo. Durò il tempo di un’illusione. Un anno dopo Bagnoli lascerà Milano e il calcio, dimettendosi dopo l’ennesima polemica con il presidente Pellegrini. Mai più seduto in panchina. Perché tutto stava cambiando, disse, e perché quel mondo -probabilmente- era diventato inconciliabile con quella idea di pulizia, di dignità, che tirandosela un po’ l’Osvaldo avrebbe potuto chiamare “etica”, ma che alla Bovisa continua ad essere semplicemente “la mia educazione, il mio modo di pensare”.

Ahmed fa un conto rapidissimo e sorride: penne all’arrabbiata (piccantissime, lo chef più messicano che egiziano). Cotoletta con insalata. Cafferino: dieci euro e via, tanti operai in coda alla cassa dietro di me, schizzati a finire qualche lavoro che “via, tra qualche giorno si va al mare”. Sull’asfalto rovente il caldo non lascia scampo. Anche l’università è chiusa, le copisterie, i bar e i circoli vecchi e nuovi. Chissà dove abitava l’Osvaldo e su quale campetto è iniziata la sua storia. Chissà chi erano i suoi compagni di squadra, venuti da chissà dove. Chissà come doveva vivere il quartiere, che ritmi imponeva la fabbrica, chissà quante assemblee e riunioni sindacali e discussioni e insegnamenti tramandati di catena in catena. Chissà quanto dignità. E chissà perché resiste ancora l’insegna verde di un Motel Bovisa, due stelle, nascosto in un cortile. Chissà chi va a dormirci, al Motel Bovisa, certe sere quando tramonta alle quattro del pomeriggio e tutto intorno è solo una tonalità di grigio, e freddo dentro.

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Dicono che oggi l’Osvaldo faccia la sua vita. A Verona, la città della gloria e dello scudetto. Una moglie, la figlia non vedente che accompagna al lavoro tutti i giorni, le carte al bar delle Vecchie Glorie del Verona, proprio nella pancia dello stadio. Da lì continua a guardare il mondo con quel pizzico di ironia, di timidezza, senza paura, che il futuro -se proprio deve- venga pure come deve venire. Chissà se ogni tanto torna alla Bovisa, l’Osvaldo. O se invece è la Bovisa a farsi sentire, in quelle serata in cui a bussarti alla porta c’è quel magone dolce, quella bella nostalgia.

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