Abbracciarsi. Le considerazioni che non avevo scritto sulla finale di Champions

Le parole hanno una loro responsabilità, vanno pesate, ponderate, scelte. Nel calcio non capita spesso. È molto più facile parlare per categorie, generalizzare, creare fazioni, fomentare odio. Di questo pezzo, di una bozza scritta di fretta per parlare di una partita che non era la nostra, non è rimasto nulla. Cancellato. Non ci sono “ma”, e non ci sono sottintesi, di rivalità sportiva si parlerà un’altra volta. C’è tempo per prendersi in giro, come piace a noi, per ritrovarsi seduti in un bar a bere una birra e chiacchierare ancora di Higuain e Icardi. Dei nostri sogni, delle nostre ambizioni, delle nostre ossessioni, perché ognuno ne ha una. Dell’Inter e dei suoi melodrammi sportivi abbiamo parlato tutto l’anno. Abbiamo scelto la chiave dell’ironia perché cosa vuoi fare, se non sorridere davanti ad una stagione così? Della Juventus conosciamo la grandezza di chi è capace di vincere (e, a mio modestissimo parere, meritare) sei scudetti di fila, e l’umana debolezza di chi proprio non riesce proprio a vincere quella finale. Francamente la trovo una storia tanto atroce – siamo sempre nel campo dello sport e della contesa in campo – quanto affascinante. Il lato debole del tifoso, il tassello che quando arriverà li farà urlare davvero di gioia, e dimenticare quella pletora di vittorie italiche che, per intenderci con grande onestà, in questo momento noi ci sogniamo.

Quello che non è affascinante, invece, è quello che è successo in Piazza San Carlo. Non è affascinante che ancora una volta una finale di Coppa dei Campioni della Juventus coincida con una tragedia, sebbene non si possa paragonare questo evento a quello mastodontico del Heysel. Ma da qui, nel nostro piccolo, a nome mio e di tutti quelli che su questo blog si sono divertiti a scrivere finora, voglio abbracciare tutte le persone che ieri, per qualche minuto, hanno visto la morte con gli occhi. I feriti, quelli gravi, quelli meno gravi, quelli che si sono presi solo un grande spavento. Non è giusto, non deve accadere, perché una finale è una festa, comunque vada. È un momento per poter gioire con gli amici, come scrive Claudio Pellecchia in un bellissimo pezzo uscito su Juventibus, dove racconta del momento in cui, dopo il gol di Mandzukic, ha abbracciato un tipo di Cuneo che nemmeno conosceva.

Ma racconta anche di questi momenti:

Ci siamo ritrovati circa mezz’ora dopo: ammaccati, spaventati, VIVI. Il tempo di una telefonata a casa per rassicurare tutti, un’altra a Simona (che si trova a Londra e che quindi ha aggiunto spavento a spavento) per dirle che sto bene e che la amo, di rendermi conto che ho maglia e scarpe sporche di sangue non mio e posso tornarmene in albergo.

Non è giusto vedere maglie macchiate di sangue, pensare a chi ha avuto paura di non rialzarsi, perché la folla lo stava per travolgere. A questo penso, alla possibilità di restare umani e fratelli, perché questo siamo, anche se non tifiamo per la stessa squadra. Anche se da par nostro, non ce ne voglia nessuno, ieri abbiamo pensato a difendere, in un gioco delle parti che si chiama “tifo”, quel nostro baluardo che proprio non ci va di condividere con altri. E come scrive Michele, è in questo momento che ho bisogno di “prendere per il culo i miei amici“.

I social hanno acuito la frustrazione e la rabbia, a volte si scrive senza pensare, si coglie ogni occasione per generalizzare. Il “tifi o gufi?” come ragion di stato. La scelta, la divisione ferrea e priva di sfumature, la pericolosa dimenticanza delle persone che ieri, in Piazza San Carlo, stavano per lasciarci la pelle. Ieri il Real Madrid ha dato a tutti un paio di lezioni: forse la più grande viene dal Santiago Bernabeu dove il Real, Società, ha scelto di riunire i propri tifosi per vedere la partita. Non una decisione presa dal Comune, ma dallo stesso Real Madrid. Noi italiani siamo legati alla piazza, è la nostra storia fatta di notti magiche e notti molto meno nobili, ma la storia evolve. Forse è meno romantico, ma quello che si è visto al Santiago Bernabeu ieri sera è contemporaneo. Il calcio nei luoghi dedicati al calcio.

Non so se questo nostro pensiero arriverà alle persone che ieri erano lì a gioire, soffrire, e poi morire. Di paura. Ma pur sempre a morire. Mi piacerebbe arrivasse, perché è da ieri che penso a quella folla che corre, a quella gente che grida. E davvero non hanno né maglia né bandiera. Se penso che qualche cretino ha colto quel momento per fare battute idiote arrossisco. Torneremo a parlare di calcio, di gioie e delusioni, di sogni e ossessioni, a sfotterci per una rivalità che mi auguro possa diventare più sana, in tutti i sensi, in primis sana di mente. Torneremo a dirci “Forza Bayern“, come “Forza Real” e “Forza Liverpool” perché di questo viviamo, anche di chiacchiere e ciarle. Perché non è da queste cose che si vede la sportività.

Sportività è sapere quando è il momento di prendersi in giro e quando è il momento di tacere. Ma io non credo sia il momento di tacere. Sarebbe profondamente sbagliato. Quindi preferisco pesare le parole. E il peso specifico è quello di un abbraccio.

3 thoughts on “Abbracciarsi. Le considerazioni che non avevo scritto sulla finale di Champions

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  1. Complimenti, “fratello” nerazzurro. Umanità e intelligenza dispensate nelle tue righe. Dobbiamo fare veramente tutti un grosso sforzo in questo senso per crescere e renderci tutti migliori.

  2. Grazie Domenico. Il tuo messaggio mi riempie di orgoglio e di forza, e mi fa pensare che qualcosa di bello, un po’ di umanità in questo mondo (non solo in questo calcio) c’è ancora. Un abbraccio forte.

  3. Carissimo Cristiano,
    il tuo nome di battesimo rispetta perfettamente i sentimenti di profonda umanità e sportività che hai dimostrato in questo articolo e vorrei ringraziarti personalmente per la lucidità con la quale discerni fra il campo e la piazza. Qualcuno ha suonato le campane, altri fatto i fuochi di artificio mentre tu hai pensato soltanto alla disgrazia sfiorata e al sangue che ancora una volta ha sporcato le nostre maglie. Sortilegio ? Casualità ? Pessima organizzazione di certo. Mi occupo da tanti anni di Heysel e questa volta mi è sembrato di vivere un nuovo incubo. Assurdo. Il panico in comune ad entrambe le storie, un’aggressione fisica e premeditata nel primo caso, una presunta e figlia della psicosi del nostro tempo nel secondo. Ti faccio i complimenti per il pezzo, per come lo hai scritto e perché conduce veritiero il tenore del tuo essere tifoso sano e sapiente. La nostra rivalità è il sale del calcio, ma sarebbe bello poter tornare insieme fianco a fianco negli stadi, senza rischiare l’incolumità. A Bruxelles sono morti tre tifosi interisti. Loro malgrado sono stati coperti pietosamente dalle nostre bandiere. Sono cari al nostro cuore quanto i feriti gravi di Piazza S. Carlo al tuo. Ripartiamo da qui. Grazie veramente di cuore, Cristiano. Sportivamente.
    Domenico Laudadio
    (Custode saladellamemoriaheysel.it e Webmaster associazionefamiliarivittimeheysel.it)

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